(Immagine in evidenza: Bitcoin mining farm via Wikimedia)
In campo finanziario (e non solo), quanto si è verificato in passato non è in alcun modo predittivo di ciò che potrebbe avvenire in futuro. Detto questo, una cosa è certa: nonostante sia stato dato per morto più di 400 volte, il Bitcoin è riuscito ogni volta a risollevarsi e, nel corso di ormai quasi quindici anni di vita, ha sempre continuato a crescere.
Lo stesso vale anche oggi: sebbene nei mesi scorsi abbiano perso fino al 75 per cento rispetto al valore record di 67mila dollari (toccato nel settembre 2021), l’attuale valutazione del Bitcoin – che nel momento in cui scrivo è attorno ai 23mila dollari – è comunque ampiamente superiore ai massimi toccati durante la precedente bolla delle criptovalute, quando nell’inverno 2017/18 il Bitcoin raggiunse i 19mila dollari per poi precipitare anche sotto i 4mila.
Andando ancora più indietro nel tempo, troviamo comunque una dinamica molto simile: nel 2013 la più nota delle criptovalute sfondò per la prima volta quota mille dollari in seguito a una crescita improvvisa (durante la quale il prezzo era quintuplicato nel giro di un mese), per poi precipitare di colpo anche a causa della bancarotta di Mt Gox, il principale exchange dell’epoca. In pochi mesi, il Bitcoin persero oltre il 70 per cento del valore.
Dopo l’ennesima bolla, un nuovo ciclo di crescita?
Insomma, il Bitcoin è stato protagonista di bolle speculative sempre maggiori, che hanno gonfiato il prezzo sempre di più e sono poi improvvisamente esplose, solitamente accompagnate da scandali finanziari di volta in volta più gravi (da ultimo il crollo di FTX). Una volta placate le acque, la moneta digitale creata da Satoshi Nakamoto ha però sempre iniziato a risalire, facendo ripartire il ciclo.
In tutto ciò, a guadagnarci sono sempre gli investitori più furbi: quelli che, seguendo il motto di Rothschild, comprano quando c’è “sangue per le strade” (metaforico) e vendono quando i bitcoin sono protagonisti anche dei servizi del Tg1 (a perderci sono invece invece gli ultimi arrivati, che comprano ai valori massimi e rimangono poi con il cerino in mano). Secondo alcuni analisti, potremmo adesso trovarci proprio nella fase iniziale di un nuovo ciclo di crescita, segnalato dall’apparente “fondo” toccato dal Bitcoin, sceso lo scorso dicembre fino a 16mila dollari.
“Se la storia può farci da guida, il Bitcoin è nella posizione ideale per intraprendere un’importante risalita: il recente rimbalzo ricorda infatti quello di metà 2019, che ha poi visto il prezzo crescere di oltre il 250%”, ha scritto Omkar Godbole su Coindesk (probabilmente la testata più affidabile del settore). Effettivamente, nel primo mese del 2023 il Bitcoin ha già messo a segno una crescita di quasi il 40 per cento, avvenuta dopo i chiari segnali di “seller exhaustion” (ovvero quando gli indici finanziari mostrano l’assenza di trader ancora intenzionati a vendere).
Dall’halving ai tassi di interesse, i fattori che possono influenzare
Ci sono altri aspetti da prendere in considerazione. Prima di tutto, si sta avvicinando ancora una volta il fatidico momento dell’halving (previsto per la primavera 2024), ovvero il dimezzamento dei bitcoin ottenuti in premio dai “miner” (coloro i quali si occupano di convalidare le transazioni che avvengono sulla blockchain) che si verifica ogni quattro anni. “Il Bitcoin solitamente tocca il fondo 17 mesi prima dell’evento e poi inizia a risalire nel corso dell’anno che porta al grande evento”, spiega sempre Coindesk.
Essendo però ormai un asset quasi istituzionale, su cui puntano i più grandi hedge fund del mondo (come vedremo meglio più avanti), è inevitabile che anche gli indici macroeconomici inizino a pesare su un bene che – fino a qualche anno fa – si muoveva invece in direzione contraria a essi (vale la pena ricordare che i bitcoin nascono in reazione alla Grande Recessione del 2007).
Da questo punto di vista, i segnali sono misti. I trader speravano che già a febbraio la banca centrale statunitense decidesse di allentare la morsa sui tassi d’interesse, ridando fiato agli investimenti più rischiosi (tra cui ovviamente quelli in criptovalute). Le ultime notizie emerse – che infatti hanno parzialmente eroso i guadagni di Bitcoin e compagni negli ultimi giorni – indicano che invece ci vorrà ancora qualche tempo. Segnali ancor meno incoraggianti giungono però dall’Unione Europea, ancora alle prese con una forte inflazione, e dalla Cina, che deve invece fare i conti con una gravissima crisi del mercato immobiliare (che minaccia le fondamenta della sua economia ancora in fase di sviluppo). La politica anti-criptovalute della Cina la rende un elemento non direttamente coinvolto nei bitcoin, ma il suo impatto sull’economia globale si ripercuote, inevitabilmente, anche su questo settore.
Bitcoin non funziona come forma di pagamento
Al di là degli aspetti finanziari, economici e anche politici (legati alle possibili nuove regolamentazioni del settore), c’è una domanda che in molti potrebbero porsi: ma che senso ha investire ancora nei bitcoin, uno strumento che non ha mai dimostrato alcuna reale funzione, afflitto da giganteschi limiti tecnici (in termini di bassissimo numero di transazioni per secondo e quindi di elevate commissioni) e che ha un impatto sull’ambiente sproporzionato?
“In un mondo perfetto, assisteremmo all’adozione dei bitcoin da parte degli utenti senza bisogno di bolle speculative e crolli”, si legge ancora su Coindesk. “Queste bolle, con le loro aspettative di ritorni sproporzionati, tendono a spingere gli investitori verso imbonitori carismatici. Il 2022 ha però riportato tutti con i piedi per terra, dopo i rischi enormi corsi da chi ha seguito questi spiriti guida”.
Se è possibile che le dure lezioni seguite agli eccessi speculativi siano state infine apprese (ma non c’è da scommetterci troppo), è invece certo che sul fronte opposto – l’adozione nel mondo reale – nulla si stia muovendo: i dati di BitPay (il principale servizio per pagamenti via criptovalute) mostrano come questa piattaforma gestisca in media meno di 100mila transazioni al mese, di cui meno della metà avvengono in Bitcoin. In poche parole, il principale servizio di cripto-pagamenti al mondo gestisce circa 40mila transazioni in Bitcoin al mese: per fare un confronto, basti pensare che un circuito finanziario come VISA ne gestisce invece circa 20 miliardi al mese. D’altra parte, al di là dei già citati limiti tecnici, come si fa a utilizzare come forma di pagamento una moneta che da un giorno all’altro può perdere anche il 20 per cento del valore?
L’ondata delle monete digitali statali
Che i bitcoin possano gradualmente trasformarsi in un sistema di pagamento diffuso nella popolazione è reso ancora meno probabile dal fatto che, nel frattempo, parecchie nazioni hanno iniziato a sperimentare le cosiddette “central bank digital currencies” (CBDC). Le varie iniziative si trovano ancora in fasi di sviluppo molto diverse, si calcola però che nel mondo circa 80 nazioni stiano progettando le loro monete digitali statali. In oltre 20 stati (tra cui Cina, Corea del Sud, Nigeria e altri), le CBDC sono invece già state lanciate o si trovano in fase pilota.
Secondo un’analisi condotta dalla società di consulenza PWC, l’88 per cento delle banche centrali che sta sperimentando le monete digitali utilizza inoltre come infrastruttura tecnologica una derivazione della blockchain. Insomma, le banche centrali – proprio quelle che la blockchain e i bitcoin puntavano a sostituire – hanno cooptato questa tecnologia, scommettendo sul fatto che il pubblico di massa non sarà mai interessato alla riservatezza garantita (teoricamente) dal Bitcoin e continuerà a privilegiare la facilità d’uso, che sarà invece al centro delle varie CBDC (tra cui inizia a prendere forma anche quella europea).
La funzione di oro digitale
E allora, qual è la funzione dei bitcoin? Al di là del fatto che, in una società che si appresta a diventare cashless, le criptovalute rivestiranno inevitabilmente un ruolo importante per l’economia illegale e sommersa (che secondo il World Economic Forum nel 2015 valeva tra l’8 e il 15 per cento dell’economia globale), al momento i bitcoin stanno confermando sempre di più la loro funzione di “oro digitale”: di bene d’investimento puro, senza alcun utilizzo che non sia quello di essere rivenduto un domani a un prezzo superiore.
“Quale sia la natura dei bitcoin è ancora da capire”, ha spiegato Ferdinando Ametrano, dell’istituto di ricerca Crypto Asset Lab, durante un Wired Trends. “Ma la sua scarsità in ambito digitale suggerisce il paragone con l’oro più che con la moneta. Certo, può essere usato anche come moneta, così come un tempo accadeva all’oro fisico. Ma l’uso dell’oro in questo senso è stato superato e lo stesso avverrà con i bitcoin, che non svolgono bene la funzione di moneta e invece possono rappresentare un valido bene rifugio”.
Il parallelismo tra oro e Bitcoin non è una novità: entrambi devono essere estratti (nel primo caso dalle miniere, nel secondo con il processo informatico noto non a caso come mining); il loro valore è slegato dall’andamento delle politiche monetarie o della borsa (basandosi solo sulla legge della domanda e dell’offerta); non possono essere stampati in quantità illimitata e non sono influenzati dai tassi d’interesse. Se non bastasse, i bitcoin non potranno mai andare oltre i 21 milioni di unità e a oggi ne sono già stati estratti circa 19 milioni, il che lo differenzia dalla moneta rendendolo più simile a un materiale prezioso scarsamente presente in natura.
Chi investe in criptovalute (e scommette su Bitcoin)
La funzione di oro digitale è confermata anche dalla pratica, visto che i bitcoin sono ormai entrati a pieno titolo nel mondo dell’alta finanza. Secondo uno studio PWC, il 38 per cento degli hedge fund oggi investe anche in criptovalute (rispetto al 21 per cento del 2021) ed esistono ormai oltre 300 “crypto hedge fund” specializzati in criptovalute. In entrambi i casi, è il Bitcoin a fare la parte del leone e a essere di gran lunga la principale criptovaluta su cui si riversano gli investimenti dei più importanti player globali: Paul Tudor Jones, uno dei più importanti manager di hedge fund di Wall Street, aveva fatto sapere di aver investito circa il 2 per cento del suo portfolio in Bitcoin già nel maggio del 2021 e ha recentemente ribadito di credere ancora nelle potenzialità del Bitcoin.
In sintesi, il semplice fatto che i grandi fondi d’investimento ripongano ancora fiducia nei bitcoin – fiducia che non sembra essere venuta meno nemmeno dopo l’ultimo crollo, probabilmente preventivato dai trader professionisti – ha consentito alla più antica delle criptovalute di mantenere il predominio in questo settore, dove ancora oggi (nonostante esistano migliaia di criptovalute, di cui circa 50 con una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari) i bitcoin rappresentano il 42 per cento del valore complessivo del mercato (che al momento supera di poco i mille miliardi di dollari).
Il nuovo potenziale di Ethereum
Tutto ciò non significa comunque che altre criptovalute e altre realtà del mondo blockchain non abbiano le carte in regola per consolidarsi e svilupparsi anche oltre il ruolo meramente speculativo. Da questo punto di vista, l’indiziato numero uno è inevitabilmente Ethereum, che ha da pochi mesi superato con successo il processo noto come The Merge, che – modificando alla radice il meccanismo di convalida delle transazioni – ha ridotto del 99 per cento i consumi di questa piattaforma e col tempo ne aumenterà drasticamente anche le prestazioni (che oggi sono limitate a circa 20 transazioni al secondo).
“Credo che il potenziale [finanziario] di Ethereum dopo il Merge non sia ancora stato del tutto realizzato a causa del mercato in ribasso”, ha spiegato l’investitore Geo Chen. Le potenzialità di Ethereum vanno però molto oltre l’aspetto speculativo: grazie ai progressi compiuti negli ultimi mesi, la piattaforma ideata da Vitalik Buterin può finalmente combinare la fiducia storicamente riposta nei suoi confronti a prestazioni che adesso sono pari a quelle dei più innovativi concorrenti (Solana, Cardano, Polkadot). Inoltre, essendo stata la prima realtà a implementare gli smart contracts (contratti automatici che entrano in esecuzione non appena gli accordi tra le parti sono soddisfatti), Ethereum è tuttora la piattaforma dominante per quanto riguarda i servizi del cosiddetto web3 (finanza decentralizzata, NFT, ambienti immersivi in stile Decentraland e altro), la maggior parte dei quali, per funzionare, si appoggia proprio a Ethereum.
Dopo la bolla degli NFT, gli scandali in ambito DeFi e le difficoltà affrontate dai semi-deserti “metaversi” basati su blockchain, ha ancora senso puntare su Ethereum come piattaforma alla base del web3? Quando si parla di blockchain e criptovalute è sempre difficile separare i progetti e le innovazioni che potrebbero dimostrare un vero potenziale dalle manovre puramente speculative (che spesso si rivelano vere e proprie truffe). In più, abbiamo visto anche recentemente come alcuni utilizzi della blockchain, perfino quelli messi a punto ai più alti livelli istituzionali, a uno sguardo attento sollevino molteplici dubbi e perplessità
Nonostante ciò, alcune applicazioni della blockchain potrebbero giocare un ruolo importante nell’immediato futuro. Prendiamo il caso degli NFT: fino a oggi se n’è parlato quasi esclusivamente per le cifre folli pagate da qualche collezionista per fare mostra sui social network di avatar con le sembianze di un punk pixelato o di una scimmia di dubbio gusto. Al di là di questi eccessi, è però probabile che gli NFT – certificati di proprietà basati su blockchain in grado di trasportare il concetto di scarsità, unicità e quindi valore anche tra gli oggetti digitali – possano rivestire un ruolo importante, per esempio integrandoli all’interno dei videogiochi (dove potrebbero dare vita a un “secondary market” di accessori di ogni tipo).
Lo stesso vale per il mondo dell’arte: gli NFT consentono infatti di registrare automaticamente sulla blockchain ogni transazione che riguarda una determinata opera. È un aspetto importante perché, usando gli smart contract, un autore potrebbe ricevere automaticamente una percentuale ogni volta che la sua opera passa di mano, risolvendo uno dei più grandi problemi degli artisti emergenti, che in molti casi assistono inermi mentre le loro creazioni vengono scambiate a prezzi crescenti.
Non tutti sono convinti e parecchi analisti continuano a ritenere che la blockchain sia, di base, una soluzione inutile perennemente in cerca di qualche problema da risolvere. Eppure è proprio in questi momenti di calma, quando la frenesia speculativa si placa, che le realtà più affidabili e dalle maggiori potenzialità possono finalmente emergere, e dimostrare il loro valore nonostante l’enorme scetticismo che le circonda. D’altra parte, è esattamente ciò che è avvenuto nel mondo del web dopo la bolla delle dot-com.