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Erik Davis: non lasciamo il sogno della tecnologia ai padroni del tech

Burning Man 2015

Immagine dal Burning Man festival, Wikimedia

Seguire le discussioni attorno alla tecnologia oggi significa anche, spesso, confrontarsi con toni estatici, mistici, quasi religiosi. Lo si vede attorno all’intelligenza artificiale e alle preoccupazioni da fine del mondo e della storia che le vengono spesso associate, insieme alle sue capacità sovrumane. Non vi sono dubbi che questi punti di vista siano erronei e persino pericolosi in termini scientifici, sociali e politici, ma allo stesso tempo dimostrano anche qualcosa di più ampio e di natura differente. Le tecnologie dell’informazione, da che esistono, sono sempre state accompagnate da una dimensione narrativa quasi spirituale; per via dei loro loro tratti conturbanti o sublimi (come teorizzato dal ricercatore Vincent Mosco, recentemente scomparso), a tratti quasi disturbanti, e alla loro capacità di aprire faglie, spalancare orizzonti, connetterci con dimensioni altre

Techgnosis, primo saggio del critico e autore statunitense Erik Davis, è il libro che, alla fine degli anni Novanta, ha tracciato la dimensione spirituale della cyber cultura dell’epoca, mappando anche la ricorsività di questi elementi mistici nella storia della tecnologia e la loro persistenza, anche se incorporata, animata e spinta da attori molto diversi tra di loro. Uscito originariamente nel 1998, Techgnosis è diventato progressivamente un elemento cruciale di quella mistica, un testo ovviamente molto ancorato nello Zeitgeist in cui è stato scritto, ma allo stesso tempo capace di guardarvi con la giusta dose di distacco e disincanto, tanto da essere ancora sorprendentemente attuale ora che viene riproposto dall’editore NERO con una nuova traduzione italiana.

Quando il cyberspazio era un futuro migliore

Rileggere oggi Techgnosis non ha però nulla di nostalgico. Coincide piuttosto con il guardare indietro, a un momento storico in cui sembrava davvero possibile che il cyberspazio potesse essere altro, o lo scheletro di un mondo altro e ovviamente migliore. Techgnosis è intriso dell’utopismo positivo di quel momento, di cui offre uno spaccato tra i più chiari, ma offre anche un resoconto delle cose che in prospettiva già allora si temeva potessero mettersi male, grazie al latente spirito disturbante e misterioso del libro, di preoccupazione e giusta paranoia che a sua volta lo pervade.

Leggere Techgnosis oggi, però, in tempi in cui l’immaginazione di altro nella tecnologia sembra impossibile per chiunque non sia un miliardario intriso di bullshit escatologiche da capitalismo impazzito a un passo dal fascismo, è un esercizio rivitalizzante. Leggerlo serve a ricordare che l’utopismo tecnologico degli anni ’90, al netto dei suoi lati più risibili, era anche un motore positivo di potenziale cambiamento. Niente o quasi di quello che si sognava allora si è materializzato e quella battaglia è forse persa per sempre, ma in Techgnosis si trova ancora un qualche seme psichedelico e mistico su cui almeno provare a sognare delle tecnologie che non siano solo statistica applicata, burocraticizzazione della natura umana, efficienza quantitativa e incubi securitari. In questo senso, Techgnosis suona ancora come un rave di potenzialità concluse ma ancora possibili e nel suo ritorno si può trovare una qualche forma di possibilità di immaginazione. O quanto meno un monito utile a ricordare quanto possa essere potente continuare a sognare la tecnologia.

Di seguito ecco la nostra intervista con Erik Davis. 

GdR: È molto affascinante pensare che il libro sia stato pubblicato originariamente alla fine degli anni ’90. Pensa che quel periodo faccia ormai parte della preistoria della rete o è possibile trovare qualche forma di vicinanza? Come si pone di fronte al ritorno di Techgnosis nel 2024?

“È strano, perché si tratta di qualcosa cui ho lavorato tanto tempo fa e quando ero giovane. È stato il mio primo libro e quello che ho fatto allora sembra continui a risuonare abbastanza da essere prezioso dopo così tanto tempo, specialmente se guardiamo al tempo in termini tecnologici, un ambito dove tutto si muove così velocemente. Penso spesso agli anni ’90, e mi sento come se non li avessimo integrati o capiti del tutto. Per quanto riguarda la mia vita, è stato il periodo in cui ero giovane e anche il mio momento di massima vicinanza agli anni ’60. È stato un periodo di vera creatività e se non di ottimismo radicale, almeno di eccitazione, perché la cultura stava cambiando con l’hip-hop e il sampling, c’erano il ritorno dei rave, la musica elettronica e i nuovi movimenti psichedelici. 

Complessivamente, c’era un vero senso di vitalità subculturale allora, oltre a tutta l’eccitazione e alle fantasie su ciò che sarebbe potuto succedere con la rete e le tecnologie digitali. Alla fine degli anni ’90, quella prima ondata di ossessione digitale di massa stava raggiungendo il culmine, e in parte a causa anche dell’economia della rete, che in retrospettiva possiamo dire fosse palesemente una sorta di truffa. Ma al tempo Wired pubblicava copertine per dire che avevamo di fronte un futuro di abbondanza perpetua. Era un periodo interessante e molto millenario, era davvero la fine del secolo. Ora prendiamo un po’ in giro il Millennium Bug, perché non è successo nulla. C’era però allora un senso strano attorno al cambiamento di data: era qualcosa di certamente allegorico, eppure anche molto reale. Si percepiva concretamente un senso di trasformazione imminente e quel senso era alimentato dall’underground, dalla psichedelia e, sai, dalla sensazione che qualcosa stesse davvero accadendo. Detto questo, sono molto felice di essere stato sufficientemente pessimista allora, tanto da non farmi coinvolgere troppo nell’hype,  e questo rende il libro ancora utilizzabile oggi”.

GdR: Cosa possiamo dire, oggi, dello spirito così ottimista del periodo? Il libro di certo non è uno di quelli che aderisce semplicemente a quei punti di vista utopici.

“In quel periodo ero interessato a tracciare l’utopianismo, a seguire la fantasia, a seguire il millennarismo, ma anche a vedere il lato più oscuro, a vedere la paranoia, la società del controllo, il lato oscuro della magia. In un certo senso, quindi è davvero la preistoria, perché il mondo è davvero cambiato profondamente. Non possiamo chiamare tutto come utopia, sarebbe un po’ ingiusto, perché sappiamo tutti che le utopie non accadono. Quindi potremmo guardare alle visioni positive che c’erano all’epoca e dire che siamo stati ingenui. Penso che il discorso sia più complicato di così, perché alcune di quelle cose potrebbero effettivamente essere accadute. A meno che non si creda che la storia sia completamente determinata, allora c’erano davvero possibilità e aperture per cose che sarebbero potute andare diversamente.

Una delle cose che mi piacciono di Techgnosis ora è che, mentre si può leggerlo con gli occhi di chi, oggi, è deluso da gran parte dell’evoluzione della tecnologia, il libro ha ancora una carica di possibilità e di riflessione su ciò che avrebbe potuto accadere. Penso che sia meglio continuare a ricordare queste possibilità per mantenerle forse in vita, invece che semplicemente aderire a qualche punto di vista completamente pessimista”.

GdR: La dimensione mistica delle tecnologie dell’informazione che è al centro del libro sia ancora visibile in qualche modo oggi? Dove la vede? Qualche tempo fa leggevo un numero della sua newsletter “Burning Shore”, dove ha riproposto un suo articolo proprio degli anni ‘90 dedicato ad Aphex Twin. Negli anni Novanta l’underground aiutava a percepire quella dimensione. I balletti su TikTok e la cultura corporate mi sembra evochino qualcosa di diverso. Sono troppo giovane per aver vissuto Aphex Twin nei suoi momenti più vitali, ma forse già troppo vecchio perché TikTok mi parli in qualche modo mistico.

“A livello personale, non mi sto più nutrendo dello Zeitgeist allo stesso modo: riesco a vedere l’arco lungo della storia, e posso essere più diffidente nei confronti dell’hype. Però, sono anche consapevole che alcuni giovani si stiano davvero sintonizzando sulla magia, sai, proprio attraverso TikTok. Parte di quel mondo è certamente superficiale, ma parte di esso non lo è ed è composto da persone che condividono comunità di pratiche degli stati alterati che sono permeate proprio dal modo in cui le immagini fluttuano su quella piattaforma. Parte di TikTok mi mette a disagio, ma parte di esso è davvero affascinante e molto più ricco di quello che possa sembrare. Una delle cose che volevo dire con Techgnosis è che quando ci sono significative trasformazioni in una tecnologia, anche se la tecnologia non finirà per realizzare le fantasie più utopiche, questa creerà comunque spazio per fare dei sogni sociali, almeno per un po’ di tempo”.

“Parte di questo è certamente hype, perché ci sono sempre persone che vogliono guadagnare sfruttando la novità. Ma vedere le cose solo in questa prospettiva ci fa perdere molto dello spirito umano, della storia, dell’immaginazione, dell’anima, o come vuoi chiamarla, di queste tecnologie. La mia generazione ha potuto farlo con Internet, con le liste di distribuzione, con gli albori del World Wide Web, con la realtà virtuale dei primordi.

Ma quelle tecnologie ora sono, anche se stanno ancora cambiando molto, in un certo senso chiuse per quel tipo di sogni. L’intelligenza artificiale (AI), invece, è un ottimo esempio. Nell’AI, si può vedere perfettamente il medesimo processo fatto di sogni utopici, storie paranoiche, invocazioni di dei e spiriti e antichi miti. Che cosa è davvero questa tecnologia? È l’apprendista stregone? È il Golem? È lo Shoggoth di Lovecraft? Ci sono già diversi miti intorno all’AI, perché è ancora qualcosa di così nuovo e dinamico, che in parte ci servono i miti per capire cosa stia succedendo davvero. C’è, insomma, qualcosa nel modo in cui sogniamo attraverso la tecnologia che continua a tornare allo stesso modo ciclicamente, perché le tecnologie a loro volta continuano a cambiare”.

GdR: Una delle cose che ho apprezzato di più del libro sono I riferimenti a quelli che lei chiama momenti di rivelazione, e molti di essi sono ovviamente collegati al World Wide Web, che all’epoca della pubblicazione del testo era all’apice della sua ascesa. Leggendo il testo ora, che il web è dappertutto, ho comunque ricordato il suono del router che si connetteva a Internet. A quel tempo, una faglia storica che ho fatto in tempo a vivere, connettersi alla rete sembrava davvero coincidere con il varcare una soglia. Dopo il World Wide Web, pensa ci sia stata un’altra tecnologia con la stessa carica di immaginazione e potenzialità di rivelazione?

“Direi che quella dimensione rivelatoria fosse legata in primis al fatto che immaginassimo il Web come uno spazio, e non a caso si usava diffusamente il termine cyberspazio, che intendevamo come una sorta di logosfera posta sopra la nostra biosfera in cui, con quel piccolo suono del router, si poteva veniva trasportati. Ma una volta che quello spazio è stato definito e abbiamo iniziato a parteciparvi quotidianamente, esso è diventato semplicemente più simile a tutto il resto. La differenza tra quello spazio e lo spazio biologico si è progressivamente dissolta.

Oggi abbiamo gli smartphone ovunque e con essi, i loro sensori. Tutto ciò che riguarda la rete è diventato più ordinario e sempre più integrato con il modo in cui il resto del mondo funziona. Nel momento in cui scrivevo Techgnosis, invece, erano proprio la distinzione e la differenza a permetterci di avere quel tipo di momenti rivelatori. Oggi penso che solo l’AI ci offra qualcosa di simile, proprio perché è ancora qualcosa di scioccante e di inquietante, proprio come c’era allora qualcosa di inquietante nel router e nel rumore che faceva mentre si connetteva alla rete”.

“Una delle cose più significative accadute in ambito tecnologico dopo l’uscita di Technosis è stata l’ascesa dei social media. Per me, i social media non hanno molto di quel potenziale rivelatorio. Certamente hanno permesso la crescita delle sottoculture e altri fenomeni simili. In quegli ambienti tutto è effettivamente a portata di mano e si possono davvero trovare gruppi che sono interessati allo Zoroastrismo o a qualsiasi altra cosa si voglia. C’è una dimensione spirituale in questo. Ma i social media sono più simili a una sorta di dispositivo di cattura. I social media sono banali di per sé. Trascorriamo sempre più tempo all’interno di questi grandi ambienti aziendali incapsulati, e l’esperienza stessa di essere su Internet non è più quella di vagare, cercare e imbattersi in queste meravigliose piccole creazioni che costituivano una creatività distribuita, che aveva di per sé una qualità di ricerca, una forma di caccia all’archivio.

Tutto ciò è diventato più organizzato e aziendalizzato. Tutto ciò non porta ad alcuna rivelazione, capisci? Proprio per niente. Forse la realtà virtuale potrebbe avere ancora qualche potenzialità rivelatoria, perché ha ancora un’inquietudine di fondo e porta con sé una dimensione che potrebbe portare le persone a esplorare alcuni scenari davvero immaginativi. Ma è difficile dire oggi che cosa diventerà davvero”.

GdR: Le idee più spirituali o mistiche legate alla tecnologia mi sembra che ora siano promosse maggiormente dagli ambienti della Silicon Valley e del business. Penso alle visioni lungoterministe sul destino dell’umanità o sull’intelligenza artificiale, indipendentemente da quanto sbagliate o problematiche possano essere. Mentre persone come noi, i critici o anche l’accademia, spingono invece di più narrazioni che vanno nella direzione di demistificare la tecnologia, cosa sacrosanta, come ribadire che l’intelligenza artificiale di cui disponiamo oggi sia semplicemente statistica applicata. Mi chiedo anche, però, se così facendo non stiamo perdendo o indebolendo la nostra capacità immaginativa mentre cerchiamo di razionalizzare queste cose? In particolare mi chiedo se non stiamo perdendo la capacità di guardare oltre l’esistente e immaginare alternative?

“Questo è davvero un dilemma. Nella mia scrittura personale, forse non in modo programmatico, cerco in un certo senso di fare entrambe le cose: c’è una funzione critica di disincanto che rivela come stanno davvero le cose, eppure c’è anche un apprezzamento per il modo in cui lo spirito o l’immagine o la narrazione o la fantasia, o la speranza ritornano ogni volta. Nella scrittura critica accademica, purtroppo, temo che non ci sia molto spazio per questo tipo di approccio, e per ottime ragioni. Ma hai ragione nel dire che mentre le norme del XX secolo si sgretolano e si dissolvono, il capitale ora può permettersi di essere sempre più selvaggio, speculativo e fantastico e attingere dalla cultura della celebrità e dalla sua mitologia e dalla sua storia.

Sai qual è un buon esempio? La colonizzazione di Marte. Se la si guarda criticamente è davvero una stronzata totale. Non c’è modo che accada. A meno che non accadano cose magiche. Ma tutti noi riconosciamo la gloriosa arroganza di Elon Musk che fantastica al di là di ogni limite. E in un certo senso, ha ragione. Non che ne abbia sul valore della colonizzazione di Marte di per sé, ma ha ragione, in un certo senso, in merito all’immaginazione. E quindi anche noi, che siamo critici, siamo un po’ bloccati e un po’ limitati perché è molto difficile contrastare quei tipi di sogni”.

“Come anche per il recente manifesto di Marc Andreessen, che era semplicemente folle, è come se queste persone dicessero: hey, nessuno ci sta guardando, diamo pure di matto.

Cosa è il manifesto di Marc Andreessen

Nell’ottobre 2023 il noto miliardario venture capitalist Marc Andreessen ha pubblicato un post intitolato “The Techno-Optimist Manifesto” (Il manifesto tecno-ottimista). Un pamphlet tecnocratico con venature futuriste in cui la tecnologia è la salvatrice dell’umanità, “liberatrice dell’anima umana”, e una forza inarrestabile, mentre il nemico è tutto ciò che, nella visione dell’autore, pone a questa dei limiti. Alcuni hanno giudicato il manifesto un prodotto dell’ideologia denominata accelerazionismo effettivo.

Tutto questo diventa, in un certo senso, fiction speculativa ed è in buona parte terrificante perché apre sempre più spazio per una società post-democratica, cripto-fascista e autoritaria in cui tutti noi siamo solo zombie di cui bisogna prendersi cura mentre, loro, i grandi, prosperano. È pura e semplice cattiva fantascienza, ma ora c’è più spazio per questo tipo di idee perché non c’è effettivamente nient’altro, non si vedono altri tipi di fantasie o di sogni.

Siamo in una situazione davvero difficile e quello che sta succedendo attorno alI’AI è un ottimo esempio. Noi due possiamo stare in cima alla collina tutto il giorno con i nostri megafoni e dire che è solo statistica, che  è semplicemente un’operazione algoritmica parassitaria applicata alla conoscenza umana pre-esistente, e così dicendo. Ma a un livello più ampio, quel tipo di fiction speculativa, del mito, continuerà semplicemente a girare imperterrita e in realtà modellerà anche il modo in cui le persone interagiscono davvero con tutto questo”.

GdR: In Techgnosis c’è un passaggio che mi ha particolarmente colpito, quando contrappone la volontà di allora di molti di integrare la rete all’economia globale, con la sua, più aperta invece al continuare a “sognare” la rete. Ora che la rete è stata integrata ovunque ed è effettivamente lo scheletro di tutto ciò che facciamo, compresa l’economia, c’è ancora spazio per “sognare” la rete in qualche modo?

“Una delle cose che intendevo dire non è solo sognare Internet in quanto oggetto, ma l’idea della rete, del network stesso. Questa sarebbe una conversazione molto diversa se oggi ci fosse più ricchezza che fluisce verso il basso e la classe media esistesse ancora, ma non è lì che ci troviamo. L’idea della rete che emergeva negli anni ’90, quando la rete stessa aveva raggiunto le sue qualità quasi fantastiche, non ha mai davvero preso il volo.

Ma in sostanza, che cos’è una rete? È un sistema con molteplici punti al suo interno e che offre connessioni complesse tra questi punti. Operare all’interno della rete è quindi una sorta di processo decentralizzato, deindividualizzato in cui ogni individuo è un nodo, ma ogni nodo è connesso in tutte queste diverse dimensioni, che si possono modulare mentre si avanza dentro il network. Questo è, penso, un modello davvero meraviglioso per interagire con la differenza e la molteplicità”.

“Ciò che vediamo ora invece è l’opposto di tutto questo, c’è polarizzazione, e le persone sono spesso completamente sepolte nelle loro prospettive. E, di norma, più sono rumorose, insistenti e cattive, più attenzione ricevono. Abbiamo smesso di sognare la rete e quel modello relazionale e invece siamo tornati a un altro sogno, almeno sui social media.

Credo però che se non saremo in grado di sognare sistemi complessi e così grandi e se non saremo capaci di trovare la nostra strada attraverso quel sogno, allora non capiremo nemmeno l’ecologia, e non capiremo tutti gli effetti aggiuntivi, le esternalità dei processi e dei comportamenti che dobbiamo essere in grado di modellare nella realtà, anche secondo prospettive non umane, perché è esattamente ciò che sta accadendo intorno a noi. Quello che abbiamo al momento è invece, al massimo, una sorta di umanesimo di ultima istanza, una sorta di illusione, che consiste proprio nel’allontanarsi dalla rete come modello di progettazione di una qualche forma di cosmologia.”