Immagine in evidenza: screenshot di un video girato il giorno del golpe in Myanmar, dove un’istruttrice di fitness tiene una lezione mentre dietro di lei passano i militari.
Il video sarebbe poi divenuto virale
Subito dopo il golpe militare del febbraio 2021 in Myanmar, i generali hanno fatto un uso massiccio e pervasivo di tecnologie di sorveglianza tra cui droni, social media e spyware per identificare, localizzare e perseguitare manifestanti e oppositori del governo. In un report del Dipartimento di Stato americano in materia di diritti umani nel Paese, riferito all’anno 2021, si legge che “il regime ha regolarmente monitorato le comunicazioni elettroniche private attraverso la sorveglianza online. Ci sono state numerose segnalazioni riguardo l’azione di monitoraggio condotta dal regime nei confronti dei sostenitori della democrazia”.
Per l’organizzazione non governativa per la difesa dei diritti digitali Access Now, che ha seguito l’occupazione degli spazi online, la privazione dell’accesso all’informazione e di quella al diritto di espressione e associazione in Myanmar, siamo ormai di fronte a una dittatura digitale. Pertanto chiunque fornisca al Paese tecnologie di uso duale (che possono avere sia un uso civile che militare, vedi box), o ne permetta il commercio, viene tenuto sotto osservazione dalle organizzazioni per i diritti umani.
Sistemi d’intercettazione occidentali in tribunale
Nel gennaio 2023, a due anni dalla presa del potere dei militari, Justice for Myanmar, un’organizzazione che monitora i finanziamenti illeciti al regime birmano, ha pubblicato dei documenti secondo i quali un mese prima del golpe l’azienda israeliana Cognyte Software Limited avrebbe vinto una gara d’appalto indetta dall’operatore telefonico statale Myanmar Posts and Telecommunications (MPT) per l’installazione di un sistema di “intercettazioni legali” in grado di operare sulle reti di tutti i fornitori di telecomunicazioni presenti nel paese.
L’ordine di acquisto per il software di sorveglianza prodotto dalla Cognyte Software Limited – riportano i documenti pubblicati da Justice for Myanmar – sarebbe avvenuto nel dicembre 2020, con il completamento dei lavori previsto per giugno 2021. Ma l’Alta Corte di Giustizia israeliana era stata chiamata a pronunciarsi sull’esportazione verso il Myanmar di armi e tecnologia difensiva – categoria nella quale rientrano prodotti di uso duale – nel settembre del 2017. E il verdetto, inizialmente secretato su ordine del governo, ne aveva stabilito lo stop a partire dal 2018. Ora non è chiaro se l’acquisto in questione sia stato mai finalizzato, ma due diverse fonti anonime a conoscenza dei piani di intercettazione del Myanmar hanno dichiarato a Reuters che il sistema della Cognyte sarebbe stato testato dall’operatore MPT.
Nel frattempo la pubblicazione dei documenti riservati ha spinto un noto avvocato per i diritti umani Eitay Mack ad avviare un’azione legale, per conto di 60 israeliani, contro l’azienda e alcuni funzionari ministeriali che avrebbero concesso le licenze per l’export, e chiedere con una lettera aperta alla procuratrice generale di Israele Gali Baharav-Miar di revocare le licenze. Mack ritiene che la Cognyte Software Ltd non possa aver agito da sola, dato che per operare in Myanmar aveva bisogno delle licenze rilasciate dai due ministeri. “Questo è il motivo per cui Cognyte e tutti i funzionari che hanno permesso l’operazione in Myanmar devono essere portati in tribunale”, ha spiegato. La lettera rivolta al governo è stata firmata da decine di altri avvocati e attivisti israeliani.
Gli spyware sono dei software malevoli in grado di prendere il controllo di un dispositivo e tracciarne tutte le attività: foto, messaggi, chiamate, geolocalizzazione e qualsiasi altra cosa sia contenuta nello smartphone o nel laptop. Vengono usati prevalentemente dai reparti di intelligence dei governi o dalla polizia giudiziaria durante le indagini. Il lavoro condotto ormai da anni da ricercatori, hacktivisti e giornalisti ha messo in luce gli abusi e gli utilizzi illeciti di questo strumento. Lo spyware Pegasus, prodotto dall’azienda israeliana NSO Group, è sicuramente il più noto e sul suo utilizzo in Europa è nata anche una commissione d’inchiesta del Parlamento europeo, di cui abbiamo scritto in questo articolo. Nei giorni scorsi è uscito un libro, Pegasus: The Story of the World’s Most Dangerous Spyware, di Laurent Richard e Sandrine Rigaud, che ripercorre le inchieste giornalistiche da cui è nata la commissione.
Gli spyware appartengono alla categoria dei beni dual-use (o uso duale), ovvero tutti quei prodotti che possono avere un utilizzo a scopo sia civile che militare: per questo sono soggetti all’Accordo di Wassenaar, che prende il nome della cittadina olandese in cui fu firmato nel 1996. Questo accordo è il primo protocollo internazionale a regolamentare il commercio di beni e tecnologie a uso duale. Più recentemente i legislatori in Europa sono intervenuti per cercare di rendere più trasparente e regolamentata l’esportazione di questo tipo di prodotti.
Cognyte Software Ltd., società israeliana con sede alle porte di Tel Aviv e un fatturato da quasi 500 milioni di dollari, è uno spinoff di Verint Systems.
Secondo un report di Amnesty International, tra il 2015 e il 2017 Verint System avrebbe rifornito il governo del Sud Sudan di sistemi di intercettazione, poi utilizzati per sorvegliare attivisti, giornalisti e oppositori. In due anni di indagini, tutte le persone intervistate da Amnesty International hanno raccontato di aver preso alcune precauzioni, come evitare di parlare al telefono e ricorrere invece ad app di messaggistica criptate. Spesso, pezzi di conversazioni telefoniche sono stati usati in maniera strumentale durante gli interrogatori per compiere arresti arbitrari. Già nel 2014, la Verint System era finita sotto i riflettori dell’organizzazione londinese Privacy International che aveva denunciato l’utilizzo di sue tecnologie di monitoraggio delle comunicazioni da parte delle agenzie di sicurezza del Kazakistan e dell’Uzbekistan.
Più recentemente alcuni comportamenti della Cognyte sono passati al vaglio del gruppo Meta che, nel dicembre 2021, ha eliminato da Facebook e Instagram più di cento account collegati all’azienda israeliana. Nel report “Threat Report on the Surveillance for Hire Industry”, il team di Meta responsabile della ricerca spiega che Cognyte ha reso disponibile un tool a pagamento che permetteva di gestire account falsi all’interno di più social media – tra cui Twitter e VKontakte (VK) – al fine di “agganciare” contatti specifici e raccogliere informazioni. Secondo l’analisi di Meta sarebbero stati individuati clienti in Serbia, Colombia, Kenya, Marocco, Messico, Giordania, Thailandia, Indonesia e Israele. Diversi giornalisti e politici sono stati identificati come bersagli.
Ultimamente le cose non sono andate bene nemmeno sul fronte finanziario. Nel dicembre del 2022 la Norges Bank ha escluso la Cognyte Software dal fondo di investimento pensionistico norvegese. La decisione è arrivata a seguito delle indicazioni del comitato etico, che ha evidenziato “l’inaccettabile rischio che la società sia coinvolta in una serie violazioni dei diritti umani”.
Il contributo di Cina e altri
Se da una parte la giunta militare birmana ha potuto disporre di tecnologie occidentali, anche europee, dall’altra può contare sulla grande potenza a lei confinante che in questi due anni non ha mai condannato il golpe e la repressione sulla società civile. Capace di controllare la rete utilizzata da più di un miliardo di persone e fornita di un sistema di censura molto esteso ed efficiente – seppur si trovino sempre alcuni sistemi per aggirarlo – la Cina è il modello tecnologico che la giunta vuole emulare. L’obiettivo è quello di riuscire a replicare il “Grande Firewall” che Pechino ha adottato ormai da due decenni, escludendo anche l’utilizzo delle principali app occidentali all’interno dei propri confini.
Subito dopo il colpo di stato del 2021, hanno iniziato a girare indiscrezioni sul fatto che la Cina avesse consegnato sofisticate apparecchiature di sorveglianza al Myanmar, e avesse inviato dei tecnici al fine di aiutare la giunta a creare un firewall birmano. Voci presto confermate da alcuni giornalisti e analisti: tra i compiti degli esperti cinesi ci sarebbe stato quello di creare un social network accessibile solo nel Paese e alternativo a Facebook e Twitter; e quello di insegnare a utilizzare software per il monitoraggio delle comunicazioni e per l’individuazione di persone che utilizzassero VPN – riportava Asia Times alla fine di quell’anno.
La notizia poi dell’arrivo, il 9 febbraio, di cinque aerei cargo provenienti dallo Yunnan, regione della Cina meridionale, aveva spinto diverse persone a raccogliersi in manifestazioni di protesta davanti all’ambasciata cinese a Yangon accusando Pechino di complicità con la giunta. Accuse che la Repubblica popolare ha negato, replicando che all’interno di quegli aerei non c’erano tecnici e apparecchiature tecnologiche ma scorte di cibo. Il collaborazionismo di Pechino ha avuto ricadute anche sulla comunità birmana sino-discendente che ha dovuto affrontare episodi di violenza, tra cui gli omicidi da arma da fuoco di uno studente di 17 anni e di una giovane donna di 19 anni.
L’altra potenza internazionale che ha fornito il proprio aiuto al regime in Myanmar è la Russia. Il generale Min Aung Hlaing e capo della giunta ha fatto visita tre volte al presidente Putin da quando è al potere. Pur non potendo competere economicamente con Pechino, Mosca è una delle maggiori fornitrici di armamenti della Birmania. Presumibilmente, con il fronte aperto in Ucraina ormai da un anno, le esportazioni di armi si sono bloccate per necessità interna – la Russia ha già sospeso dei contratti di consegna con Serbia ed Algeria – ma Mosca resta un alleato troppo prezioso per il Myanmar: le permette di non essere dipendente esclusivamente dalla Cina. La Russia, in cambio, si assicura la presenza nel Sud est asiatico. Secondo alcune analisi, avrebbe fornito supporto alla giunta anche per il controllo di internet.
Blackout mirati e minacce online
Dal primo febbraio 2021, secondo i dati registrati dalla Assistance Association for Political Prisoners, in Myanmar 2.947 persone sono state uccise dalle forze armate, 13.787 sono quelle detenute mentre 143 sono state condannate a morte. Controllare la rete Internet e le telecomunicazioni vuol dire poter disporre degli spazi online in cui potenzialmente si può diffondere il dissenso. Per questo con cadenza regolare vengono disposti dei blackout, soprattutto nelle zone in cui la resistenze al regime è più radicata. Come riporta Access Now, l’interruzione dei servizi online è spesso imposta per nascondere uccisioni, maltrattamenti, incendi di villaggi e altri gravi abusi. I social network sono soggetti a un costante controllo delle autorità, mentre account pro-regime diffondono una propaganda feroce che si ripercuote sulla vita delle persone, soprattutto su quella delle donne.
L’organizzazione Myanmar Witness ha analizzato più di un milione e mezzo di account Telegram e ha potuto constatare un aumento degli abusi online sulle donne cinque volte superiore rispetto al periodo immediatamente successivo al colpo di stato. In generale, circa il 90% dei post analizzati su Facebook – a cui si accede solo con VPN – e Telegram sono riconducibili ad account legati alla giunta militare. “Ho ricevuto messaggi su Messenger in cui mi scrivevano cose tipo ‘stupreremo tua madre e poi stupreremo te’”, ha raccontato un’attivista alla trasmissione Newsnight della BBC. Un’altra, nascosta in un luogo segreto nella giungla birmana, dice di aver ricevuto anche 500/600 messaggi al giorno in cui viene minacciata di morte.
In Myanmar si sta consumando una campagna aggressiva contro le donne che vengono descritte come “corrotte” e “promiscue”. Sessualizzare la donna attraverso un linguaggio particolarmente violento serve a minarne la credibilità di attivista e a costruire una narrazione secondo cui le donne che si oppongono al regime sono impure e prede sessuali dei leader del governo di unità nazionale, l’esecutivo eletto e in esilio dal primo febbraio del 2021.
Ma la pratica più pericolosa per la loro incolumità è quella del doxxing, ovvero la condivisione di informazioni riservate come indirizzi di casa, numeri di telefono o foto in cui non vengono risparmiati neanche i parenti. A farlo sono per lo più canali Telegram propagandistici seguiti da decine di migliaia di utenti. Le donne “doxxate” vengono attaccate con messaggi e chiamate private in cui si inneggia alla violenza sessuale (“manderemo cento uomini a stuprarti”) o le si minaccia di morte. Nel giro di 24 ore dalla pubblicazione delle informazioni vengono arrestate dalle forze militari.
Telegram ha provveduto a sospendere 18 canali e 120 post segnalati dalla BBC, spiegando che la condivisione di informazioni personali senza il consenso dell’interessato sulla loro app viola i termini di servizio. Ma la moderazione dei contenuti e le segnalazioni degli utenti non bastano a bloccare la proficua produzione di post violenti e misogini: canali dai nomi quasi identici e con la capacità di accumulare decine di migliaia di follower si moltiplicano poco dopo la sospensione.