L’Italia è ha introdotto, lo scorso 17 settembre 2025, una legge che punta a normare l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. Il provvedimento recepisce (almeno in parte) l’AI Act europeo, introducendo anche una serie di regole e reati penali connessi all’uso dell’AI.
Ma qual è la situazione in Italia per quanto riguarda l’uso di strumenti di intelligenza artificiale? A prima vista, il nostro paese sconta un ritardo simile a quello, più volte denunciato, relativo a una generale carenza di competenze digitali. Analizzando i dati disponibili, emergono però alcuni elementi che chiariscono meglio le specifiche problematicità, accanto a considerazioni importanti riguardo il prossimo futuro.
Quale intelligenza artificiale?
Quando ci si avventura in un’analisi sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale, la maggior parte dei dati disponibili sono di carattere statistico e devono essere presi con le pinze. Numeri e percentuali, infatti, rischiano di essere fuorvianti.
Il primo aspetto su cui soffermarsi è l’oggetto stesso di cui si tratta. Nonostante l’opinione pubblica parli ormai di “intelligenza artificiale” con riferimento solo all’AI generativa e ai modelli linguistici (large language model), la sua definizione è in realtà molto più articolata.
La stessa legge italiana adotta l’ampia definizione utilizzata nell’AI Act: “Un sistema automatizzato progettato per funzionare con livelli di autonomia variabili (…) e che, per obiettivi espliciti o impliciti, deduce dall’input che riceve come generare output quali previsioni, contenuti, raccomandazioni o decisioni che possono influenzare ambienti fisici o virtuali”.
Non solo, quindi, i vari ChatGPT, Gemini, Claude e soci. Quando si parla di AI ci si riferisce in realtà a una molteplicità di sistemi e funzioni, molti dei quali rimangono dietro le quinte e dei quali, nella maggior parte dei casi, gli stessi utilizzatori di software e piattaforme ignorano l’esistenza.
I chatbot di largo consumo nel nostro paese
I sistemi di GenAI per cui è più facile reperire dati oggettivi sono proprio i chatbot che hanno preso il centro del palcoscenico negli ultimi 36 mesi. I dati riportati dalla piattaforma di analisi AI Tools, aggiornati allo scorso agosto, riportano una classifica che mostra la distribuzione geografica degli accessi via web ai servizi di AI.
Alla testa di questa particolare classifica (basata su numeri assoluti) svettano gli Stati Uniti con oltre 2 miliardi di accessi, mentre l’Italia si posiziona al 17esimo posto dietro a paesi come Messico, Filippine, Indonesia e Vietnam. Questi dati, però, sono falsati dalle differenze a livello di popolazione: se si introduce questo elemento nell’equazione, i dati consentono una lettura più veritiera.
Se ci limitiamo a confrontare il numero di accessi con paesi “simili”, emerge come AI Tools abbia registrato in Italia 3.25 accessi per abitante, poco più della metà (5,76) rispetto agli Stati Uniti e con un valore di poco inferiore a Germania (4,57) e Francia (3,85).
Limitando l’analisi a ChatGPT, che nel settore dell’AI generativa detiene più dell’80% del mercato, i dati sono piuttosto simili. Stando a quanto riporta Digital Gravity, gli accessi provenienti dall’Italia al chatbot di OpenAI si collocano allo stesso livello di un paese come la Germania e di poco inferiori a Spagna e Francia.
“I dati sono sempre utili, ma rischiano di creare degli equivoci pericolosi”, sottolinea Irene Di Deo, ricercatrice senior dell’Osservatorio Artificial Intelligence al Politecnico di Milano. “Quando si parla di utilizzo di AI generativa facendo riferimento ai prodotti accessibili sul web, spesso si tratta di un uso che ha un fine ludico o personale. Per comprendere il livello di utilizzo in ambito produttivo è indispensabile fare riferimento ad altri indici, come le licenze acquistate dalle imprese”.
L’AI nel settore produttivo
Se si passa a un uso più “aziendale” dell’intelligenza artificiale, i dati disponibili sono meno oggettivi rispetto a quelli relativi al numero di accessi agli strumenti di AI liberamente disponibili su Internet. La maggior parte di questi dati si basa su indagini eseguite in ambito accademico o a opera di istituzioni internazionali. Una delle analisi più affidabili, pubblicata da Eurostat, segna un generale ritardo dell’Italia rispetto agli altri paesi europei.
I dati relativi al Digital Intensity Level – indice che valuta quanto intensamente un’azienda utilizza un insieme di tecnologie digitali chiave nella propria attività – sono tutto sommato nella media. Tra i 27 paesi UE, l’Italia si posiziona infatti al sedicesimo posto. Quando si parla di AI, le cose però vanno decisamente peggio.
In questa specifica classifica, l’Italia è ventiduesima e staccata notevolmente dai migliori. Solo l’8% delle aziende italiane utilizzerebbero strumenti basati sull’AI, contro il 27,6% di quelle danesi e una media UE del 13,5%. “Si tratta di un dato che va letto alla luce del tipo di tessuto produttivo che c’è nel nostro paese”, spiega Di Deo. “La prevalenza di piccole e medie imprese incide notevolmente sul dato statistico”.
Quando si parla di utilizzo dell’AI in ambito produttivo, specifica la ricercatrice, nella maggior parte dei casi sono strumenti con finalità molto specifiche, ben diversi dai chatbot che vengono proposti al grande pubblico. “Si tratta di piattaforme che richiedono investimenti a livello finanziario piuttosto rilevanti, che le PMI spesso non possono permettersi”, prosegue. “A livello di grandi aziende, i dati che abbiamo raccolto in questi anni indicano che almeno il 60% delle imprese ha implementato strumenti basati sull’AI o ha avviato almeno una sperimentazione”.
Di Deo sottolinea anche un altro aspetto: per sfruttare l’AI è indispensabile avere delle basi solide a livello di dati. Non si tratta dei famosi dataset necessari per addestrare gli algoritmi, ma di quelle informazioni che poi verranno elaborate dall’intelligenza artificiale per generare valore per l’impresa. “L’uso dell’AI per finalità come la manutenzione predittiva o il controllo qualità dei prodotti richiede la presenza di una serie storica. Chi non ha raccolto dati sulla sua attività negli ultimi 20 anni potrà difficilmente ottenere dei buoni risultati in questi ambiti”.
Il fenomeno della Shadow AI
A complicare ulteriormente il quadro è la difficoltà di monitorare l’uso “autonomo” di strumenti di AI generativa da parte dei lavoratori. La disponibilità di chatbot gratuiti o comunque accessibili commercialmente per uso privato ha innescato il fenomeno della cosiddetta “Shadow AI”, cioè l’uso non documentato (e incontrollato) di strumenti di intelligenza artificiale da parte di singoli individui.
Oltre a essere un elemento distorsivo a livello statistico, la Shadow AI rappresenta un’area grigia che è fonte di preoccupazione per gli addetti ai lavori. Le ragioni sono molteplici e comprendono, per esempio, i rischi legati alla cyber security. Gli strumenti basati su AI generativa aumentano infatti il rischio di diffusione involontaria di informazioni riservate e soffrono di vulnerabilità specifiche che possono essere mitigate solo attraverso l’adozione di rigorose politiche di utilizzo e l’implementazione di strumenti dedicati.
Ancora: con l’approvazione dell’AI Act (e in Italia della recente normativa nazionale) emerge anche il tema del rispetto degli obblighi giuridici legati all’uso dell’intelligenza artificiale. Tra questi c’è l’obbligo di informare i clienti quando si impiegano strumenti di AI nello svolgimento della propria attività professionale, come previsto dall’articolo 13 della legge italiana.
Quale impatto ha davvero l’AI?
Se oggi il livello di implementazione dell’AI viene considerato come un indicatore di evoluzione tecnologica, è probabile che questa equivalenza evapori piuttosto rapidamente, soprattutto a livello statistico. Gli LLM, in diverse forme, vengono ormai integrati in qualsiasi software. Non c’è prodotto commerciale che non offra un “assistente” alimentato dalla GenAI, la cui utilità è spesso relativa.
Anche dove l’AI è stata considerata una priorità su cui puntare, sono emersi grossi dubbi sul suo reale impatto. Una ricerca del MIT Media Lab, pubblicata quest’anno, sottolinea come il 95% delle imprese che hanno introdotto strumenti di intelligenza artificiale generativa non sia stato in grado di individuare un effettivo impatto a livello di valore.
I ricercatori, nel report, sottolineano come l’AI sia utilizzata principalmente per migliorare la produttività individuale attraverso l’uso dei vari “co-piloti”. In tutti questi casi, non si va oltre la generazione di documenti, email, riassunti di riunioni e simili.
Nulla di sconvolgente, quindi, soprattutto se si considera che, a questo livello di adozione, si rischia anche di cadere nel fenomeno del “workslop”, neologismo traducibile più o meno come “lavoro fatto in fretta e male”. Tradotto nella pratica, è possibile definirlo come un aumento di produttività a livello quantitativo, ma che lascia spesso a desiderare sul piano qualitativo.
Chi si ritrova a valutare i contenuti creati con l’AI deve spesso scegliere se accontentarsi di un prodotto mediocre, riscrivere tutto da capo in prima persona o chiedere all’autore di rifarlo da zero. Un ulteriore elemento di complessità che interseca, più che aspetti squisitamente tecnologici, una dimensione culturale. E sarà proprio su questo piano, probabilmente, che si giocherà il futuro dell’AI come possibile “motore” dell’ innovazione.