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Così si contrabbandano i microchip sotto restrizione

Hong Kong Island Skyline da Wikimedia

Immagine in evidenza: Hong Kong Island Skyline da Wikimedia

Al cuore della competizione tecnologica tra le superpotenze del pianeta si cela un meccanismo che ricorda vagamente il gioco per bambini del “whac-a-mole” (in italiano: “acchiappa la talpa”). Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e, in parte, la UE) che tentano di controllare il futuro dell’innovazione con strumenti normativi (embarghi, sanzioni, veti). Dall’altra c’è una rete sempre più fitta di intermediari, snodi logistici, società fantasma che cercano di eludere i controlli sull’export, spuntando dal nulla proprio come la talpa del gioco.

Questo fenomeno caratterizza in particolare il settore dei semiconduttori, dove ha ormai assunto il nome di chip laundering (riciclaggio dei chip). Un termine generico che descrive un settore industriale sommerso, nato tra le pieghe della geopolitica dell’hi-tech. Il paragone più immediato è con l’elusione delle sanzioni nel settore energetico, ma il confronto regge solo in parte. A differenza del petrolio, i chip sono minuscoli, facili da trasportare, da camuffare e da occultare.

Dietro il contrabbando di semiconduttori c’è più di un semplice mercato nero. C’è un panorama di paesi non allineati e di supply-chain che si rimodulano di continuo per sfuggire al controllo dei grandi centri del potere normativo di questa epoca. Un mondo che ha qualcosa di piratesco (e peraltro condivide alcuni luoghi della pirateria storica), seppur stravolto in chiave cyberpunk. Esploriamo dunque questa zona grigia, dove l’elusione delle sanzioni non è solo una pratica opportunistica. Talvolta, come vedremo, è una necessità di sopravvivenza industriale.

Il contenimento russo

Come è noto, i chip sono oggi componenti essenziali degli arsenali militari. Senza microprocessori, non funzionano i missili, i droni, i radar, i sensori, le comunicazioni criptate, i sistemi di logistica e di tracciamento delle unità. È in virtù di questa pervasività che i semiconduttori sono diventati l’equivalente del carburante in una guerra moderna: senza di essi, l’apparato bellico si inceppa.

Nel contesto della guerra in Ucraina, tutto questo ha assunto un’importanza cruciale per la Russia, sottoposta a severe sanzioni nel campo dell’elettronica. Ogni drone contiene infatti chip di fabbricazione occidentale; ogni missile richiede componenti elettronici spesso prodotti in paesi NATO; perfino i sistemi di sparo necessitano di circuiti avanzati per funzionare.

Da qui l’esplosione delle forniture parallele. Paesi come Singapore, Hong Kong, la Turchia, gli Emirati e la Bielorussia sono divenuti snodi tecnologico-logistici attraverso cui i componenti occidentali vengono “riciclati”, camuffati come beni civili, e poi reindirizzati verso l’industria bellica russa, con triangolazioni finanziarie che spesso utilizzano banche locali poco trasparenti, criptofinanza e circuiti alternativi di compensazione monetaria, come quelli sino-russi basati sul renminbi.

Il risultato è un ecosistema e che prospera nel buio e che rende difficile verificare l’impatto delle sanzioni. Il paradosso, denunciato dallo stesso Zelensky, è che, mentre l’Occidente cerca di limitare il potenziale russo, ogni giorno sull’Ucraina piovono missili che contengono centinaia di brevetti tecnologici di paesi NATO.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, quasi 4 miliardi di dollari di chip soggetti a restrizioni si sarebbero riversati in Russia da oltre 6.000 aziende, alcune delle quali si trovano a Hong Kong, ha scritto lo scorso agosto il New York Times, in un’inchiesta che ha analizzato dati doganali russi (ottenuti da un’azienda terza), registrazioni aziendali, registrazioni di domini e altre informazioni sulle sanzioni.

Un altro importante crocevia delle supply chain alternative è rappresentato dalla Malesia, dove diverse aziende locali, talvolta anche consolidate, svolgono la funzione di “camere di compensazione” per chip ad alte prestazioni destinati a Mosca. Alcune di queste aziende, come Jatronics, sono state sanzionate dal Tesoro Usa per aver “facilitato l’approvvigionamento di prodotti a uso duale (dual use) da parte della Federazione Russa”. Torneremo più avanti sulle ragioni per cui persino aziende con una reputazione “ufficiale” da difendere si prestano a questo gioco.

I “falsari” dei chip

Il mercato parallelo dei microchip si nutre attivamente delle vulnerabilità dell’industria stessa. A cominciare da quelle più strutturali come la carenza globale di chip, accelerata dalla pandemia e ormai divenuta una sorta di “new normal” dell’industria. È proprio in questo contesto che gruppi di falsari hanno trovato terreno fertile, spacciando per autentici componenti in realtà provenienti dal riciclo di rifiuti elettronici: vecchi chip smarcati, ribrandizzati e immessi sul mercato millantando prestazioni in realtà nettamente inferiori.

Qui il problema non è tanto l’evasione delle sanzioni, ma il rischio concreto che questi componenti pongono ai loro utilizzatori finali. Cosa succede se, per esempio, dei chip contraffatti finiscono nei freni di un treno ad alta velocità? Un ulteriore problema è che la distinzione tra illeciti volontari e falle strutturali è a volte sottile. I produttori di semiconduttori – pur con tutti i dovuti controlli – spesso non riescono a monitorare ciò che accade una volta che i componenti lasciano i canali ufficiali. È qui che la filiera si trasforma in un circuito fatto di documentazioni potenzialmente contraffatte e opportunità di corruzione dal basso.

Tra le tipologie di chip più prese di mira dai falsari ci sono, da diversi anni, le GPU: le (costose) schede grafiche in cui si è specializzata NVIDIA e che oggi sono centrali nell’ecosistema AI. Recenti notizie dalla Cina rivelano un’evoluzione impressionante delle tecniche di falsificazione dei prodotti NVIDIA, con falsi talmente simili agli originali da trarre in inganno persino gli operatori del settore. Non si tratta più di semplici imitazioni visive o di prodotti riciclati dai rifiuti elettronici, ma di una vera e propria ingegneria del falso che sfrutta componenti autentici per costruire contraffazioni altamente credibili.

Nonostante molti di questi falsi si siano rivelati non performanti, resta incerto se esistano versioni operative in grado di superare anche i controlli software. Strumenti diagnostici come GPU-Z – un software che fornisce informazione sulle caratteristiche e le performance delle schede grafiche – possono essere facilmente ingannati attraverso modifiche al BIOS, una pratica piuttosto comune in Cina. In alcuni casi, come quello della scheda grafica di NVIDIA RTX-4090(D), sono persino comparse sul mercato contraffazioni con memorie superiori a quelle dei prodotti originali (la memoria è uno degli aspetti più frequentemente modificati dei chip.

Tutto ciò suggerisce che non si tratti di operazioni artigianali isolate, ma di un’industria parallela di falsificazione su larga scala: un problema non solo per i consumatori – che rischiano di spendere migliaia di dollari per dell’hardware obsoleto – ma anche per la sicurezza informatica a livello globale. In un mondo dove la qualità dei componenti elettronici determina l’affidabilità di interi sistemi, la diffusione di componenti contraffatti rischia di causare danni strutturali e difficili da controllare.

Deepseek e Singapore

Negli ultimi mesi è stato spesso sollevato il dubbio che DeepSeek funzioni grazie a chip di NVIDIA che, a partire dal 2022, non avrebbero più dovuto essere disponibili in Cina. Il sospetto è che i componenti siano arrivati a Pechino attraverso una catena di “nazioni-ponte” che avrebbe come terminale Singapore, la città-stato che, dal 2022 a oggi, ha visto salire la propria quota sul fatturato globale di NVIDIA dal 9% al 22%, un incremento dalle tempistiche quantomeno sospette.

Le autorità locali negano qualsiasi coinvolgimento diretto nella questione (e hanno anzi arrestato nove persone con l’accusa di contrabbando di chip per un valore complessivo di 350 milioni di dollari), tuttavia l’assenza di meccanismi di tracciamento post-vendita lascia aperto un margine di ambiguità sufficiente a far passare una quantità significativa di chip da una parte all’altra del Mar Cinese Meridionale, senza che nessuno possa davvero impedirlo.

Secondo quanto emerso da recenti inchieste giudiziarie – confermate a febbraio dal ministro della giustizia di Singapore – uno dei modi con cui i chip di NVIDIA sono giunti in Cina, per il tramite della Malesia e di Singapore, è all’interno di server, prodotti da società americane come Super Micro Computer (SMC) e Dell, e venduti da aziende di paesi asiatici non soggetti a restrizioni dirette. NVIDIA ha perciò chiesto a Dell e SMC di condurre una verifica presso i loro clienti nel Sud-est asiatico, in modo da verificare che fossero ancora in possesso dei server che avevano acquistato.

È anche per questioni legate a queste falle se, dopo lo smacco subito a opera di DeepSeek, l’amministrazione Trump ha valutato anche l’inclusione dell’H20 – chip intenzionalmente depotenziato per il mercato cinese – tra i prodotti vietati all’export in Cina (è recentissima la notizia che il CEO di NVIDIA, Jensen Huang, avrebbe convinto Trump a ripensarci nel corso di una sfarzosa cena a Mar-a-Lago).

La maxi-multa a TSMC

Il tema si fa ancora più complesso quando entra in gioco la difficile decifrazione delle catene di fornitura “ufficiali”. Un caso emblematico, in tal senso è quello che ha coinvolto Huawei, TSMC e la cinese Sophgo. Secondo un’analisi di TechInsights, una società canadese specializzata nello studio dei semiconduttori,  un componente sotto embargo ordinato da Sophgo a TSMC — apparentemente per scopi legati al mining di criptovalute — si sarebbe rivelato parte integrante dei processori Ascend 910 di Huawei, destinati a sistemi di intelligenza artificiale con potenziali applicazioni militari. Interpellata dai media, Huwaei ha negato qualsiasi violazione delle normative internazionali, sostenendo che è dal 2020, quando cioè sono entrate in vigore le prime restrizioni, che l’azienda non utilizza componenti prodotti direttamente da TSMC. 

Ma il Dipartimento del Commercio statunitense ha minacciato una multa superiore al miliardo di dollari contro TSMC, accusata di aver infranto (seppure probabilmente in modo involontario) i veti all’esportazione. È una cifra enorme, che rappresenta un precedente problematico e pericoloso non solo per l’azienda, ma per tutto il settore.

Tra necessità e amici di comodo

In conclusione, torniamo alla domanda lasciata in precedenza in sospeso. E cioè: perché aziende e paesi con una reputazione da difendere scelgono di compromettersi con il mercato nero dei semiconduttori, mettendosi di traverso a quello che tuttora è il principale potere normativo mondiale? La risposta ha a che fare con l’estrema complessità della filiera dei semiconduttori. In un settore dove ogni componente attraversa decine di confini, passa per centinaia di fornitori e coinvolge processi che richiedono sapere diffuso e anni di sviluppo, esercitare un controllo totale è nei fatti impossibile.

Peggio ancora: il tentativo di esercitarlo può generare strozzature tali da minacciare la sopravvivenza di interi comparti industriali. Ogni volta che un ente americano introduce un veto, un embargo o una lista nera, crea inevitabilmente un collo di bottiglia. I chip sono del resto il frutto di una catena che coinvolge materiali grezzi (come il silicio ultra-puro), macchinari di estrema precisione (prodotti da ASML e Tokyo Electron), software avanzati (strumenti di electronic design automation come quelli di Synopsys e Cadence), processi di design (NVIDIA etc), fonderie (TSMC, Samsung, SMIC) e test di validazione finale. Ogni segmento di questa catena è concentrato in poche aziende, e uno squilibrio anche minimo in un singolo anello può compromettere l’intero sistema.

È in questo contesto che le aziende, specialmente quelle che operano in paesi che hanno rapporti economici vitali con diversi blocchi geopolitici, si trovano davanti a un bivio: rispettare gli embarghi e rischiare di bloccare la propria attività, perdendo molti soldi e potenzialmente la possibilità di stare sul mercato, o aggirare le sanzioni e continuare a produrre. Per molti non è una scelta etica, ma esistenziale.

Nel settore dei chip, la pressione è enorme: la domanda globale cresce esponenzialmente e nessuna azienda può permettersi di restare indietro. E così, pur di tenere in funzione la macchina produttiva, si ricorre a triangolazioni logistiche, a reti di subappaltatori poco tracciabili, alla ricodifica dei componenti, alla creazione di filiali ad hoc in giurisdizioni opache. In alcuni casi, sono gli stessi governi ad adottare un atteggiamento ambiguo, tollerando certe pratiche in cambio di crescita economica e attrazione di investimenti hi-tech.

Questo tema si intreccia a doppio filo con quello del cosiddetto “friendshoring”, ovvero l’incentivo alla rilocalizzazione di attività strategiche in paesi teoricamente amici o quantomeno neutrali. Paesi terzi che, in realtà, spesso si rilevano snodi funzionali a entrambi i fronti della nuova “Guerra Fredda” (un fenomeno peraltro già verificatosi nel corso della “prima” Guerra Fredda).

La fedeltà geopolitica degli “amici” di convenienza non è del resto mai assoluta, ma soggetta a un costante bilanciamento tra interessi, pressioni e convenienze. Più che alleati o avversari di qualcuno, il realismo geopolitico suggerisce ai paesi “terzi” di comportarsi da broker. Per tutti questi fenomeni, il mondo dei chip somiglia sempre più a un fiume attraversato da correnti sotterranee. Chi vuole davvero comprendere dove sta andando non può ignorare le mosse dei contrabbandieri di silicio.