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2,1 miliardi di euro per trasformare 100.000 classi tradizionali in ambienti innovativi di apprendimento e creare laboratori per le professioni digitali del futuro. Tanto sarà stanziato, all’interno del pacchetto di investimenti del Pnrr per la transizione digitale della scuola. A questi vanno aggiunti altri 2 miliardi e 443 milioni per altri tipi di interventi quali il potenziamento delle reti locali, cablate e wireless, l’installazione di schermi interattivi nelle aule, il piano per la Banda larga, la migrazione sul cloud, lo sviluppo di siti internet delle scuole e il Piano PagoPA-SPID-CIE. Insieme agli 800 milioni destinati alla formazione digitale dei docenti, arriviamo ad una somma complessiva di 4,9 miliardi di euro. Una montagna di soldi che la scuola pubblica in simili flussi e quantità non ha mai visto. Parliamo di cifre talmente alte che alcuni dirigenti scolastici, contattati da Guerre di Rete, hanno manifestato enorme sollievo per le risorse in arrivo ma anche un timore genuino all’idea di gestire centinaia di migliaia di euro ciascuno.
Il Piano si chiama “Scuola 4.0” ed è illustrato in un pdf di 40 pagine diffuso dal ministero dell’Istruzione. Al centro del programma vi sono due azioni principali: la trasformazione di almeno 100mila aule in ambienti innovativi di apprendimento (Next generation classrooms) e la realizzazione di laboratori “per le professioni digitali del futuro” (Next generation labs). Partiamo dalle classi innovative. Nel documento si legge come la progettazione di queste aule riguardi almeno tre aspetti fondamentali:
- il disegno (design);
- la progettazione didattica basata su pedagogie innovative adeguate ai nuovi ambienti e l’aggiornamento degli strumenti di pianificazione;
- la previsione delle misure di accompagnamento per l’utilizzo efficace dei nuovi spazi didattici.
Le aule devono essere spazi flessibili dove la classica disposizione degli studenti seduti frontalmente rispetto al docente deve far posto ad altre modalità didattiche più cooperative con banchi e sedie mobili o con un sistema misto in cui studenti e studentesse si muovono durante la giornata tra aule adibite per ogni disciplina. Gli spazi saranno forniti di dispositivi digitali (schermi, notebook, tablet…) connessi a Internet che promuoveranno “una pedagogia innovativa”. E se le aule di nuova generazione sono rivolte soprattutto alla scuola primaria e alla secondaria di primo grado, i laboratori hanno l’obiettivo di formare ragazzi e ragazze alle “professioni del futuro”. La Commissione Europea vuole raggiungere entro il 2030 la quota di 20 milioni di specialisti, paritariamente tra donne e uomini, in quei settori tecnologici che oggi soffrono di carenza di personale qualificato. Da qui la necessità di integrare i percorsi didattici con l’apprendimento di competenze nella robotica e automazione, intelligenza artificiale, cloud computing, cybersicurezza, internet delle cose, modellazione stampa 3D/4D, big data, blockchain, realtà virtuale e aumentata, e molto altro ancora.
Criticità del Piano Scuola 4.0
Un piano ambizioso che trova il favore di dirigenti e personale scolastico, ma non senza alcune difficoltà. In un post Facebook pubblicato recentemente, Laura Biancato, dirigente scolastica dell’Istituto Einaudi di Bassano del Grappa, ha scritto che “nei gruppi professionali impazzano le discussioni, (…) alcuni dirigenti scolastici e direttori amministrativi dichiarano, con post e commenti, che si rifiuteranno di gestire questi fondi. Nella scuola manca il pane, ma stanno per arrivare montagne di brioche”. Raggiunta per telefono, Biancato ha spiegato come in un’occasione così unica per la scuola pubblica è necessario fare formazione ai dirigenti scolastici “perché il rischio è quello di acquistare o rinnovare gli ambienti scolastici secondo la moda e non secondo un criterio di sistema della scuola che si dirige. Si deve cercare di collegare gli ambienti scolastici con la tecnologia, la formazione degli insegnanti e le competenze che bisogna sviluppare negli studenti. Questa visione d’insieme non è così tanto diffusa tra i dirigenti scolastici”.
Simili problematiche vengono sollevate anche da Damiana Periotto, dirigente scolastica dell’Istituto Comprensivo Gabelli di Torino: “[i fondi del Pnrr] sono una possibilità che non vogliamo scartare nel modo più assoluto, ma proprio perché sono tanti soldi siamo in difficoltà. Non abbiamo delle segreterie così preparate ad affrontare questo tipo di pratiche”, commenta a Guerre di Rete. E sottolinea altri due aspetti: il rischio delle speculazioni edilizie e la formazione dei docenti. “Ci dispiacerebbe se diventasse una sorta di arrembaggio da parte delle ditte che fanno proposte altisonanti che poi non hanno un effettivo riscontro. C’è inoltre il tema della formazione dei docenti. Cosa me ne faccio di una bellissima stampante 3D se poi non ho personale qualificato che la sappia utilizzare?”.
L’Istituto diretto dalla dirigente Periotto raccoglie circa 1200 studenti e attualmente è privo di un tecnico informatico. Aggiornamenti e manutenzione di computer e altri dispositivi digitali sono delegati alla buona volontà dei docenti. Ma quello dell’Istituto Gabelli non è un caso isolato. Ad agosto la Segreteria nazionale della Federazione Uil Scuola Rua inviava una lettera al ministero dell’Istruzione in cui rilevava come fossero coperti solo in parte i posti autorizzati in qualità di assistente tecnico, laboratorio “Informatica”, da impiegare nelle scuole del I ciclo di istruzione.
Il profilo di assistente tecnico nella scuola primaria e secondaria di primo grado è stato previsto solo nel 2020 quando nella Legge di Bilancio viene inserita l’assunzione temporanea di 1000 assistenti, prorogati poi nel biennio 2021-2022. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Miur, l’organico del personale ATA comprende complessivamente 17.190 posti per i profili di assistente tecnico. Le sedi scolastiche di ogni ordine e grado sono oltre 40mila sul territorio italiano.
Il divario digitale che separa i giovani italiani in età scolare ai coetanei europei
Lo scoppio della pandemia e la conseguente necessità di svolgere le lezioni da remoto hanno messo in evidenza le numerose disuguaglianze presenti tra i giovani in età scolare. Un report molto dettagliato di Openpolis pubblicato a giugno 2020 aiuta a districarsi tra i dati per capire qual è lo stato dell’arte rispetto alle disuguaglianze digitali in Italia. Considerando solo le famiglie con figli minori, la percentuale di famiglie che hanno internet a casa sfiora il 100% a livello europeo: 98% per le coppie con almeno un figlio, 97% per i monogenitori. In Italia la percentuale scende a 96% per le coppie e al 92% per i genitori single. Il divario digitale, quindi, non dipende più tanto dall’accesso piuttosto dall’uso che viene fatto della rete. Chi vive in una famiglia socio-economicamente avvantaggiata è più probabile che utilizzi internet per leggere, approfondire e ampliare le proprie conoscenze al contrario di un coetaneo in una famiglia svantaggiata che utilizzerà la rete principalmente per motivi ludici. Dall’Unione Europea arrivano poi altri dati non confortanti: nel 2020 l’Italia risultava terzultima per competenze digitali di base o superiori tra i giovani nella fascia di età 16-19 anni, davanti solo a Bulgaria e Romania. L’83% tra ragazze e ragazzi europei è risultato avere competenze digitali di base o superiori, in Italia questa percentuale scende al 64%. Praticamente 20 punti sotto la media UE (grafico interattivo).
Esiste uno strumento, usato dalla Commissione Europea, utile a monitorare il progresso digitale degli Stati membri sin dal 2014, e viene calcolato sulla base di cinque indicatori: connettività, capitale umano, utilizzo di internet, integrazione delle tecnologie digitali e sviluppo dei servizi pubblici digitali. Nell’ultimo rapporto del 2022, l’Italia si è posizionata diciottesima su 27 Paesi membri, dove se con la connettività e l’integrazione delle tecnologie è al di sopra della media europea soffre di un’importante carenza di capitale umano. Torniamo quindi alla questione dell’educazione alle discipline STEM (science, technology, engineering, and mathematics) nella scuola italiana.
Il soluzionismo tecnologico non salverà la scuola
Giovanni Salmeri è professore di Filosofia all’Università di Roma Tor Vergata e segue da tempo il tema dell’insegnamento dell’informatica nella scuola: “viene detto che il modello tradizionale di insegnamento non è più adatto ai tempi attuali, quindi è necessario percorrere la strada di una «didattica innovativa», commenta a Guerre di Rete. Già qui c’è una premessa fragile: la scuola di oggi è in realtà molto diversa da quella anche solo di qualche decennio fa. L’innovazione poi viene identificata principalmente con l’uso della tecnologia: questa è un’ingenuità, che fa sospettare che chi ha preparato questo documento non abbia mai insegnato”. In un’analisi per Agenda Digitale scrive, inoltre, che nel Piano viene utilizzato “un linguaggio intenzionalmente vago” che serve a tenere sotto lo stesso ombrello l’informatizzazione della scuola, l’uso dell’informatica come tecnologia di sostegno all’insegnamento e l’insegnamento vero e proprio dell’informatica. Rispetto a quest’ultimo punto – sottolinea – “siamo anni luce distanti dalla chiarezza della proposta formulata dal Laboratorio Nazionale Informatica e Scuola del Cini”. Prendendo in mano il Piano Scuola 4.0, invece, sappiamo che nelle scuole arriveranno moltissimi nuovi dispositivi ma è meno chiaro come l’insegnamento dell’informatica e altre discipline propedeutiche alle “professioni del futuro” entreranno nelle classi.
Nel 2017 la comunità informatica dell’università italiana aveva preparato un contributo sulla formazione all’informatica nella scuola, frutto di una consultazione che aveva coinvolto anche pedagogisti e docenti. Nel documento venivano fissati i traguardi che gli studenti di ogni ordine e grado devono raggiungere rispetto a cinque macro ambiti dell’informatica: algoritmi, programmazione, dati e informazione, consapevolezza digitale e creatività digitale. Ad esempio, tra le competenze da sviluppare al termine della scuola secondaria di primo grado – si legge – l’allievo deve descrivere in maniera algoritmica semplici processi della natura o della vita quotidiana; progettare, scrivere e mettere a punto, usando linguaggi di programmazione facili da utilizzare; conoscere l’architettura di principio (fisica e funzionale) di un sistema di elaborazione digitale.
In pratica in terza media un alunno dovrebbe, tra le altre cose, scrivere programmi che usano l’annidamento di cicli e selezioni; utilizzare in modo semplice meccanismi modulari, come funzioni e procedure; scrivere programmi anche utilizzando variabili di tipo semplice; seguire l’evoluzione dell’elaborazione anche usando variabili che rappresentano lo stato del programma; usare le variabili nelle condizioni dei cicli e delle selezioni. Ma anche: comprendere i princìpi fondamentali dell’architettura e del funzionamento di Internet e del Web; comprendere i princìpi fondamentali dell’architettura e del funzionamento (hardware e software) di sistemi e dispositivi informatici.
“Purtroppo la tecnologia può essere facilmente spacciata per una cura miracolosa – spiega a Guerre di Rete Salmeri – la storia della LIM (le Lavagne Interattive Multimediali, ndr) di dieci anni fa non ha insegnato nulla? Gli studi empirici hanno concluso che non c’è stata la minima correlazione tra uso della LIM e miglioramento dei risultati dell’insegnamento”.
Le ricerche Ocse già nel 2015 andavano proprio in questa direzione: senza un vero passaggio educativo, il solo utilizzo del pc a scuola non è affatto correlato a competenze più elevate. Tanto più se la faglia del divario digitale si è ormai spostata dalla possibilità di accesso ai dispositivi tecnologici alla modalità di fruizione.