Immagine in evidenza: proteste ad Ottawa da Wikimedia
Iran: il 15 marzo, durante una cerimonia a cui ha partecipato il vicepresidente iraniano per la Scienza e la Tecnologia, Hossein Afshin, la Repubblica islamica ha presentato la sua prima piattaforma nazionale di intelligenza artificiale. Una piattaforma, la cui versione finale dovrebbe essere lanciata nel marzo 2026, basata su una tecnologia open source e su un’infrastruttura nazionale che ne garantisce l’operatività anche durante le interruzioni di internet. La piattaforma include funzionalità di base come la visione artificiale, l’elaborazione del linguaggio naturale e il riconoscimento vocale e facciale. Partner chiave della nuova piattaforma è l’Università Sharif, ente sanzionato dall’Unione Europea e da altri Paesi per il suo coinvolgimento in progetti militari e missilistici, e per intrattenere rapporti con il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), o pasdaran.
Il lancio di questa piattaforma giunge esattamente il giorno dopo la pubblicazione del documento delle Nazioni Unite intitolato Report of the independent international fact-finding mission on the Islamic Republic of Iran, presentato al Consiglio dei diritti umani a Ginevra il 18 marzo scorso. Il rapporto, pubblicato dopo due anni di indagini indipendenti che hanno incluso interviste a circa 285 vittime e testimoni e l’analisi di oltre 38.000 prove, rivela come le autorità iraniane, dalla fine del 2022 a oggi, abbiano intensificato l’utilizzo di sistemi di videosorveglianza, droni aerei, applicazioni informatiche e software di riconoscimento facciale per monitorare la condotta dei cittadini, in particolare delle donne e il loro uso dello hijab.
Una “condotta persecutoria verso le donne”, così viene definita nel testo, la cui fase cruciale è coincisa con l’approvazione del piano Noor, lanciato nell’aprile 2024 dal Comando di Polizia della Repubblica Islamica dell’Iran (FARAJA), teso a inasprire ulteriormente le pene per chi violava la legge sull’obbligo di indossare lo hijab. E proprio in questa occasione la Repubblica islamica ha fatto ricorso all’uso dell’applicazione mobile Nazer.
Nazer, “l’Hijab monitor” della Repubblica islamica
Nazer è una parola persiana che significa “supervisore” o “sorvegliante”. L’applicazione, riferisce uno studio di Filter Watch (progetto del Gruppo Miaan, organizzazione che lavora per sostenere la libertà di internet e il libero flusso di informazioni in Iran e nel Medio Oriente), funziona esclusivamente sulla National Information Network (NIN), una intranet controllata dallo Stato modellata sul Great Firewall cinese e sul RuNet russo, che mira a isolare l’internet nazionale dalla rete globale. Nazer è accessibile sul sito web della polizia e sul canale Eitaa, un’app di messaggistica domestica. Prima di poter utilizzare Nazer, i potenziali utenti e il loro dispositivo devono essere approvati dalla polizia FARAJA.
Lo scopo di questa app è quello di segnalare alla polizia le donne che all’interno delle auto non indossano lo hijab in modo appropriato. La trasgressione può essere comunicata inserendo nell’app la posizione del veicolo, la data, l’ora e il numero di targa, dopodiché partirà in tempo reale un messaggio di testo alla polizia, segnalando così il veicolo. “In Nazer non è presente una tecnologia di riconoscimento facciale, e l’app non è progettata per scattare foto di volti. È possibile però scattare foto delle targhe”, riporta lo studio di Filter Watch.
A settembre 2024, riferisce un nuovo report di Filter Watch, Nazer è stata aggiornata per consentire il monitoraggio delle donne presenti in ambulanza, sui mezzi pubblici o sui taxi, suggerendo come per i funzionari governativi l’applicazione delle leggi sull’hijab siano una priorità rispetto a un’emergenza medica. L’app è inoltre dotata di nuove funzioni che in futuro potrebbero essere usate per segnalare altri tipi di violazioni, come persone che protestano, che consumano alcolici, che mangiano o bevono in pubblico durante il Ramadan, e comportamenti considerati contrari alla “moralità pubblica”.
Una volta che l’auto viene segnalata, la polizia procede inviando un SMS di avvertimento al proprietario. Qualora la violazione venisse ripetuta una seconda volta, l’auto verrà sequestrata elettronicamente. Alla terza infrazione sarà sequestrata sul posto e successivamente, alla quarta infrazione, sequestrata nei parcheggi designati dalla polizia.
Ottenere dati precisi sul numero delle auto confiscate non è semplice, a causa della pesante censura che vige nella Repubblica Islamica. Si parla comunque di migliaia di veicoli sequestrati in questi mesi. A riferirlo è un recentissimo articolo apparso su Etemad, giornale riformista. L’avvocato Mohsen Borhani, sentito da Etemad, ha denunciato come questi sequestri siano illegali. Borhani ha ribadito che non ci sono statistiche esatte sul numero di sanzioni effettuate, ma sulla base delle dichiarazioni di alcuni funzionari e delle indagini sul campo afferma che a migliaia di cittadini sia stata sequestrata l’auto.
La videosorveglianza, un’arma di repressione
Oltre l’uso di applicazioni informatiche, la Repubblica islamica ha in questi ultimi mesi inasprito l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza. In ottobre, sulla scia dell’approvazione della Legge a sostegno della famiglia attraverso la promozione della cultura dell’hijab e della castità, legge pubblicata il 30 novembre ma poi sospesa, è stato lanciato un nuovo sistema di videosorveglianza chiamato Saptam. La funzione di Saptam è monitorare gli spazi pubblici, in particolare gli esercizi commerciali.
Questo sistema, creato in collaborazione con la polizia locale, collega le telecamere installate nei negozi ai server cloud gestiti dal sistema nazionale di telecomunicazioni, consentendo alla polizia locale di accedere ai filmati registrati.
L’implementazione del sistema Saptam, riferisce Iran News Update, ha coinvolto inizialmente 39 aziende e circa 280 gruppi commerciali. Sebbene l’introduzione di questo nuovo sistema sia stata giustificata per contrastare reati, per esempio le rapine, molti temono che questa installazione venga utilizzata anche per reprimere il dissenso e monitorare l’abbigliamento delle donne.
Alireza, direttore di una piccola azienda, ha riferito a Iran International: “Non passerà molto tempo prima che installino tali sistemi di sicurezza, o meglio strumenti di controllo statale, in tutte le aziende per far rispettare l’uso dello hijab. Le mie dipendenti non sono tenute a indossare l’hijab nei nostri uffici, ma questo non sarà più possibile se consentiremo alla polizia di accedere alle nostre telecamere, perché potrebbero chiuderci”. Mentre Saeed Souzangar, attivista per i diritti digitali, in un post su X ha denunciato: “Il prossimo passo del regime sarà installare telecamere nelle nostre case. Le aziende devono resistere a questi piani abominevoli invece di arrendersi”.
La repressione attraverso apparati tecnologici non si è arrestata: tutt’altro. A dicembre, Nader Yar Ahmadi – consigliere del ministro dell’Interno e capo del Centro per gli Affari degli Stranieri e degli Immigrati del ministero dell’Interno – ha dichiarato a l’Irna, agenzia di stampa statale, che il ministero dell’Interno utilizzerà test biometrici per individuare i cittadini illegali. Questo metodo è stato adoperato dalle autorità iraniane soprattutto per contrastare l’immigrazione proveniente dall’Afghanistan.
Quanto finora esposto conferma che nonostante il cambio di governo avvenuto a seguito della morte del presidente Raisi, il nuovo presidente, Masoud Pezeshkian, eletto a luglio, ha continuato ad attuare una pesante e sistematica repressione verso i cittadini e le cittadine, oltre che un vigilantismo informatico e tecnologico sponsorizzato dallo Stato.
Il controllo nello spazio digitale e l’uso delle VPN
La repressione perpetuata dalla Repubblica islamica non si limita agli spazi fisici, ma include anche un controllo sistematico dello spazio digitale. “Dopo aver imposto blocchi a internet durante le proteste e aver sviluppato la propria National Internet Network, lo Stato ha continuato a limitare l’uso di applicazioni mobili impegnandosi in una sorveglianza diffusa. Questi strumenti non sono stati utilizzati solo per restringere la libertà di opinione ed espressione, ma anche per monitorare e prendere di mira i cittadini, tra cui attivisti e giornalisti, oltre che per intimidire, soffocare il dissenso e mettere a tacere le opinioni critiche”, informa il report UN.
Le autorità iraniane hanno varato specifiche misure per impedire ai cittadini di comunicare liberamente e poter accedere a contenuti non sottoposti a censura. Nel febbraio 2024, il Consiglio supremo del cyberspazio ha per esempio vietato l’uso senza un permesso legale delle VPN (reti private virtuali). Una mossa che è servita al governo per aumentare la propria sorveglianza interna, consentendogli di raccogliere informazioni sugli utenti, nonché di tracciare le loro comunicazioni via internet e le loro attività online. Ciò è stato reso possibile anche perché, al posto delle VPN, gli utenti iraniani sono stati costretti, se volevano usufruire di piattaforme straniere, a usare proxy nazionali approvati dallo Stato, riferisce sempre il report. Per servizi essenziali, come quelli bancari, ai cittadini è stato imposto di adoperare solo app locali.
Le VPN in Iran sono diventate necessarie per poter accedere ai social e a contenuti bloccati. Senza le VPN, i cittadini e le cittadine iraniane non avrebbero potuto divulgare le immagini delle proteste connesse al movimento rivoluzionario “Donna, Vita, Libertà”, denunciando così gli attacchi violenti della polizia e delle guardie rivoluzionarie contro i manifestanti, e nemmeno esprimere dissenso e coordinare le proteste. A voler aggirare il filtraggio attuato dal regime sono però anche i proprietari di piccole imprese, letteralmente paralizzate dalle riduzioni quotidiane della velocità di internet e dai contenuti bloccati.
Nonostante il 24 dicembre scorso il Consiglio Supremo del Cyberspazio abbia revocato le restrizioni per WhatsApp e Google Play, l’Iran è tra i paesi meno liberi al mondo per quanto riguarda i diritti digitali, e la rincorsa a sistemi alternativi lo conferma. Oltre alle VPN, in Iran un altro metodo per aggirare la censura è Starlink.
Starlink: un altro metodo per aggirare la censura
Starlink, sviluppato da SpaceX e di proprietà del miliardario Elon Musk, è vietato in Iran. Da quando però, sul finire del 2022, gli Stati Uniti hanno revocato alcune restrizioni all’esportazione di servizi internet satellitari, Starlink è stato disponibile per migliaia di persone nella Repubblica islamica.
Lunedì 6 gennaio 2025, riporta l’agenzia di stampa ILNA, Pouya Pirhoseinlou, capo del Comitato Internet dell’E-Commerce Association, ha dichiarato che in Iran sono oltre 30.000 gli utenti che utilizzano Starlink. Ciò significa che molto probabilmente si assisterà a un’ulteriore crescita dell’uso di questa tecnologia in futuro.
L’accesso illimitato e ad alta velocità (qualità perlopiù assenti nell’internet nazionale iraniano) ha incrementato l’uso sottobanco di Starlink, scriveva Newsweek a gennaio. L’internet satellitare, non necessitando di server nazionali e di transitare per la rete iraniana, funziona in modo indipendente, consentendo agli utenti di accedere ai contenuti e ai siti web oscurati, impedendo inoltre alle autorità di tracciare gli utenti e di monitorare le loro azioni nel cyberspazio.
Parlando dell’uso di Starlink in Iran non si può non menzionare l’ordine di acquisto da parte dell’Unità di Crisi italiana – struttura del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale – di 2 antenne e 10 abbonamenti da 50 giga di Starlink da destinare all’ambasciata italiana a Teheran. A comunicarlo è un’inchiesta dell’Espresso pubblicata il 14 Gennaio 2025. Nel documento, riportato nell’inchiesta, si legge che l’acquisto è avvenuto “al fine di assicurare la possibilità alla nostra ambasciata di mantenere attivi i collegamenti internet nel caso di interruzione delle comunicazioni terrestri” .
“La procedura prevede che le antenne vengano attivate solo per testarne il funzionamento e siano poi sospese con l’obiettivo di riattivarle solo ove si rendesse necessario”, ha riferito il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, rispondendo a un’interrogazione in Senato sul sistema satellitare Starlink. Nella medesima interrogazione del 13 marzo, Ciriani ha inoltre comunicato: “Sono state avviate alcune sperimentazioni con i sistemi satellitari Starlink presso le sedi diplomatiche in Burkina Faso, in Bangladesh, in Libano e in Iran, che dunque sono state dotate di antenne Starlink, anche se nessuna a oggi è attiva”.