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Sulla storia dell’hacking c’è ancora molto da raccontare

A Blue Box at the Powerhouse Museum

Immagine in evidenza: Una Blue Box al Powerhouse Museum (wikimedia)

Oggi l’hacking è dappertutto. Se ne parla in ambito politico e geopolitico, in quello economico, militare, sociale ed è, potenzialmente, presente nel discorso pubblico accompagnando notizie degli argomenti più disparati. Solo nei giorni in cui questo articolo viene scritto, ad esempio, le homepage dei media italiani e non, parlano di attacchi informatici ai distributori di sigarette in sostegno all’anarchico Alfredo Cospito; dell’hacker che ha scoperto alcune vulnerabilità in ChatGPT e di una dirigente di Meta che sarebbe stata hackerata e intercettata con uno spyware, probabilmente dai servizi greci (ne abbiamo scritto in newsletter qua, ndr). Se l’hacking oggi è ovunque – e in alcuni casi a sproposito – le sue origini come fenomeno sociale prima che tecnologico sono spesso di più difficile tracciamento. Federico Mazzini, professore associato all’Università di Padova, dove insegna digital history e storia dei media e della comunicazione, ha di recente pubblicato Hackers. Storia e pratica di una cultura (Laterza), un libro che propone una disamina storica dell’hacking a livello internazionale (non italiano), inquadrando le caratteristiche della sua cultura in un continuum storico ampio, che è possibile, a detta dell’autore, far risalire ai primi del 900 e agli albori delle tecnologie di comunicazione.

Andare più indietro di Hackers di Stephen Levy

Secondo Mazzini, infatti, la storiografia ufficiale dell’hacking – quella impressa principalmente da Steven Levy nel suo Hackers: Heroes of the Computer Revolution – ha cristallizzato una narrazione attorno all’evoluzione della cultura hacker che da allora non è stata poi più né aggiornata né approfondita. Il libro di Levy rimane ovviamente un testo fondamentale per la cultura di Internet, ma è pur sempre un libro del 1984 che non ha ricevuto particolari aggiornamenti dalla sua prima pubblicazione. In particolare, il libro radica la cultura hacker nei circuiti accademici, all’interno dei maggiori campus statunitensi, fino alla sua diffusione successiva in circuiti diversi e più underground. Il volume di Mazzini vuole mettere in discussione questo assunto e la rigida divisione per “generazioni” in cui è solitamente raccontata la storia delle comunità hacker. Per Mazzini, che ha svolto in precedenza ricerca sulla divulgazione tecno-scientifica attorno alla prima guerra mondiale, infatti, la genesi della cultura hacker andrebbe cercata altrove e in tempi più antichi, a partire dalla tecnocultura statunitense degli albori del’900, ben prima che i computer entrassero nelle aule del Massachusetts Institute of Technology (MIT).

Ma la scena italiana nasce nell’underground. E Levy era la nostra Bibbia

E’ vero che c’è poca bibliografia, e non ci sarà mai una storiografia esaustiva sull’argomento, anche se bisogna dire che Steven Levy all’epoca intervistò moltissimi protagonisti di quegli anni e il suo libro ha avuto una forte influenza, anche qua da noi”, commenta a Guerre di Rete Stefano Chiccarelli, autore con Andrea Monti di Spaghetti Hacker, un saggio centrale per la scena hacker italiana (di cui Chiccarelli faceva parte), uscito nel 1997, che racconta e documenta la storia di quei primi anni.
Il termine hacker inteso nel suo collegamento ad abilità tecniche, a questioni tecnico-informatiche, alla goliardia, all’etica hacker così come è stata anche successivamente raccontata da Pekka Himanen nel libro L’etica hacker nasce proprio al MIT

In quanto alla scena italiana, prosegue Chiccarelli, inizia tutto nell’underground, e l’università si affaccia su questo mondo solo dopo, a metà degli anni Duemila. Quegli esordi in Italia sono raccontati proprio dal libro Spaghetti Hacker, ma anche da Italian Crackdown di Carlo Gubitosa e da Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete di Arturo Di Corinto e Tommaso Tozzi.

Ci sono tante storie di hacking. Ci sono gruppi che hanno fatto scelte radicalmente diverse l’una dall’altra. La parte meno raccontata da noi è proprio quella successiva, nel primo decennio degli anni Duemila”, prosegue Chiccarelli, quando sono successe molte cose e sono subentrati anche molti altri soggetti. “Ma agli inizi c’era anche più voglia di parlare e raccontarsi. Si sentiva che si era parte di una cosa che cambiava il mondo. Ora forse c’è meno voglia di raccontarsi e più desiderio di visibilità”.

C.F.

Dalla letteratura di fantascienza di fine ‘800 ai phone phreak

I phone phreak (coloro che sperimentavano con sistemi di telecomunicazione e in particolare con le reti di telefonia pubblica per usarle in modo diverso da quello standard, ndr) e le loro azioni negli anni ’70 in particolare sono spesso considerati come gli iniziatori di un certo approccio manipolatorio nei confronti delle tecnologie di comunicazione. “La narrazione storica ma non storiografica dell’hacking generalmente posiziona i phone phreak come i progenitori degli hacker”, commenta Mazzini a Guerre di Rete. “Credo invece di aver notato che i due fenomeni, l’hacking accademico e il phone phreaking, si sviluppassero allo stesso momento ma in luoghi diversi, uno nell’accademia e l’altro tra gli studenti medi, ma ovviamente sempre negli Stati Uniti”. Se al centro delle attività di phreaking, però, vi era la capacità individuale di interagire con la tecnologia in modo creativo e comunitario, i phone phreak non sono stati i primi ad attuarlo. Da un punto di vista prettamente storico, Mazzini vuole collocare l’hacking su un tempo più esteso. “Se anche l’hacking sembra nuovo, in alcune sue parti fa parte di processi di lungo periodo che a mio modo di vedere partono dalle riviste di divulgazione e dalle comunità di radioamatori dei primi del 900”, commenta ancora Mazzini.“Non sono nemmeno del tutto sicuro che partano proprio da lì, magari si potrebbe andare anche più indietro. Nel libro parlo anche della fantascienza di fine ‘800, nel quale appunto c’era sempre questa immagine del ragazzino che sapeva interagire in maniera creativa con le tecnologie del tempo, con il telegrafo, la ferrovia e così via. Insomma, c’è la possibilità di guardare a fenomeni che ci sembrano nuovi però in un periodo lungo o anche lunghissimo”. 

Non solo università e circoli accademici

Per la narrazione “classica” della storia dell’hacking l’idea stessa di hack è sorta nelle università e nell’informatica degli albori negli anni ’50, ma secondo Mazzini in comunità esterne alle università come quella dei phone phreak si stava comunque  manifestando una cultura simile, anche se in ottica più amatoriale. Secondo questa visione, quella dell’hacking sarebbe insomma una storia di gruppi diversi che si sono sovrapposti rifacendosi a principi simili in ambiti e contesti differenti. Per questa ragione la storia dell’hacking, sostiene Mazzini, deve o ancora essere raccontata, almeno a partire da un certo momento in poi: “non so se c’è una storia da rileggere, perché la storia dell’hacking è proprio ancora da fare, o da scrivere. C’è una percezione, o da correggere o comunque da discutere: è una percezione non necessariamente sbagliata ma che proviene per lo più dalle scienze sociali e pertanto manca inevitabilmente di un certo spessore storico. Basti dire che tutti, me compreso, in parte abbiamo citato come storia dell’hacking un libro che è stato scritto nell’84, quello di Stephen Levy. L’hacking è cambiato moltissimo dal 1984 ad oggi, ovviamente, però comunque si ritorna sempre a quel testo, perché di fatto c’è solo quello. Non c’è tanto una storia da rivedere, quanto una storia proprio da scrivere”.

A limitare fin qui questa opera di storicizzazione potrebbe essere stato quell’alone di “eterno presente” che sempre accompagna l’hacking: la “condanna” a essere raccontato come un fenomeno dell’adesso: “gli storici e anche gli storici dei media devono portare con sé una zavorra, perché c’è sempre questa percezione di eterno presente, che vuole che l’hacking sia sempre nel presente. Manca la percezione che se vogliamo parlare di computer hacking si deve partire almeno dagli anni ‘70”. Il campo, ovviamente, diventa ancora più ampio se si andasse a guardare alle differenze geografiche e culturali, oltre che al panorama extra-occidentale.

Steven Levy - Hackers - prima edizione
Steven Levy - Hackers - prima edizione (immagine da www.raptisrarebooks.com)

L’influenza dei media nella narrazione sugli hacker

Questa percezione è da attribuire al fatto che l’idea che ogni epoca ha dell’hacking è in buona parte strettamente connessa a come l’hacking viene percepito e narrato in ogni epoca storica, un elemento di cronaca, soprattutto giornalistica, che ha forse fatto perdere la visione d’insieme su quel continuum storico cui si accennava in apertura. Anche in questo caso, il modo in cui gli hacker hanno raccontato se stessi e il modo in cui sono stati raccontati dai media e dal giornalismo non sono necessariamente due mondi completamente distinti, sostiene Mazzini, il cui libro si muove attingendo proprio alle due narrazioni: l’hacker raccontato da sé e l’hacker “percepito” dai mezzi di comunicazione: “ho cercato di mettere in evidenza come le due narrazioni non siano mai davvero separate”, spiega lo storico, “perché come l’hacker viene raccontato è spesso poi come l’hacker diventerà nella generazione successiva, almeno in parte. I giovani neofiti e chi si avvicina alla pratica legge i giornali, legge i romanzi, guarda i film e poi cerca almeno in parte di adeguarsi alla percezione che viene presentata”.

La difficoltà di preservare le fonti e documentare questa cultura

Scrivere una storia dell’hacking significa però anche rispondere a un’urgenza: quella del mettere da parte queste fonti, archiviarle, prima che scompaiono: “paradossalmente, è più facile andare a trovare le fonti sulle culture tecniche precedenti all’hacking. E la cosa davvero più paradossale è che più si arriva vicino al presente e più difficili sono da studiare, perché si passa al digitale e ancora di più più si passa alle chat, che spesso non lasciano traccia, tant’è vero che abbiamo bisogno di antropologi come Gabriella Coleman per raccontarci ottimamente la storia di Anonymous”, spiega Mazzini raccontando delle fonti cui ha attinto per ricostruire il continuum storico dell’hacking: “nel mio caso, le fonti sono state tutto ciò che sono riuscito a trovare di autoprodotto dalle culture tecniche e negli scritti autoprodotti disponibili: principalmente quelle riviste o newsletter che tenevano insieme le varie comunità: QST per i radioamatori, YPL/TAP per i phone phreak e poi 2600 per per gli hacker insieme a Phrack. Il libro vuole anche essere una sintesi di quanto è già stato detto magari sparso in varie in varie pubblicazioni che però desse anche dei punti storiografici sul lungo periodo e sulla comunicazione politica”.  

L’importanza dell’anima underground e controculturale

Inquadrare le genesi della cultura hacker anche a partire dalle sue manifestazioni extra-accademiche significa anche ribadirne i tratti più contro-culturali: più newsletter e fanzine underground e meno paper accademici, però, non si traducono automaticamente in un’immagine necessariamente più espressamente politica: “per esempio, i phone phreak, dopo un inizio politico e fortemente vicino alla controcultura, hanno un rigetto della politica. Quello che in parte può essere riletto riguarda soprattutto le forme e le modalità della comunicazione politica. Non tutti i gruppi hacker sono politici, alcuni sono volontariamente e sfacciatamente non-politici. Però, quando parlano di politica, le forme della politica e della comunicazione politica provengono dalla tarda controcultura americana”, commenta ancora Mazzini. “Di fatto, una sorta di hack ai media, volto al fortissimo uso dell’ironia, dello scherzo, della teatralità trasposta nel digitale, il gusto dello stunt e dell’azione dimostrativa che ha il doppio messaggio da una parte estremamente minaccioso per le istituzioni e per il sentire comune, dall’altra estremamente ironico e perciò quasi bambinesco, per chi può capire lo scherzo”. Anche lo stile comunicativo di due dei più noti gruppi hacker responsabili di azioni prettamente politiche e di attivismo, sono da inserirsi in questa connessione storica: “Anonymous, ad esempio, e LulzSec hanno in buona parte fatto vedere questo approccio: erano fondamentalmente dei ragazzini neanche tecnicamente ultra-capaci, ma si presentavano come anti-eroi che avrebbero distrutto Scientology”. 

Le tante facce odierne del fenomeno

Arrivando all’oggi, è sostanzialmente impossibile dare un’immagine univoca delle ramificazioni odierne dell’hacking, in particolare per quanto riguarda proprio i suoi tratti più politici: “non non c’è una risposta univoca. Ad esempio, ci sono tanti programmatori Facebook che sono ultra-capitalisti senza saperlo, o persino neoliberisti senza saperlo, ma che si definiscono essi stessi hacker e sono convinto che persino Mark Zuckerberg si definisca hacker” (lo fa, ndr), sottolinea Mazzini, “quelle forme di comunicazione politica che dicevo sono certamente molto evidenti ancora in Anonymous, che ancora esiste. Esiste però sempre un uso politico ed esistono le conseguenze delle lotte degli anni ‘80, in particolar modo penso alla Electronic Frontier Foundation o a organizzazioni simili. Esiste, ad esempio, una consapevolezza del valore della condivisione del sapere e dell’open access che ovviamente è stato veicolato, tra i primi, dagli hacker stessi. Persistono anche dei gruppi attivisti che si definiscono e che sono hacker, non c’è dubbio”. “In pratica”, sostiene Mazzini, “oggi il termine hacking tende a includere tutte queste cose insieme”

Tornando all’apertura di questo articolo, però, l’hacking oggi è ovunque ed è intrecciato a molto altro, spesso ben al di là dei contesti tecnici e informatici: “nella conclusione del libro parlo non a caso di esplosione dell’hacking, un’idea che richiede una seconda lettura a diversi livelli e fondamentalmente una definizione per ogni singola comunità”, continua Mazzini, “anche chi usa ransomware oggi sarebbe stato definito dagli hacker che ho studiato io come uno script kiddie, ovvero come persone che usano dei programmi nel quale la creatività nel trovare modi di accesso è molto limitata se non inesistente rispetto a un’estorsione attraverso software o indirizzi trovati nel deep web o comprati direttamente”

L’eredità politica del movimento hacker

L’eredità politica del movimento hacker, però, è oggi ancora presente, forse non tanto nelle rivendicazioni e nelle azioni dirette degli hacker, quanto nel modo in cui questi ultimi siano stati capaci di far passare i loro messaggi e le loro istanze nei dibattiti cyber correnti. Quella esplosione cui accennavamo prima, insomma, ha portato istanze hacker in tanti luoghi, anche dove le comunità hacker non sono necessariamente operative in modo attivo: “tanti dei temi che adesso sono sparsi in diversi gruppi cyberattivisti o per i diritti sulla rete sono stati incubati nel comunità hacker e poi ne sono fuoriusciti. I media hanno definito Wikileaks come hacking, e pensa a quanto Wikileaks, pur con tutti i suoi difetti e le sue controversie, abbia apportato al dibattito sul giornalismo, sulla trasparenza, sulla consapevolezza del fatto che la rete può anche essere un uno strumento di disvelamento delle dinamiche politiche ritenute segrete o di elite”, spiega Mazzini. 

Le comunità hacker, insomma, hanno progressivamente hackerato anche la cultura e lo spirito dei tempi, esportando alcuni loro elementi anche altrove: “vedo molta più potenzialità nell’aggregarsi attorno al tema del libero accesso alla conoscenza, Creative Commons, oppure l’open access nell’ambito accademico. Sono tutte cose, di nuovo, incubate nelle comunità hacker, discusse, portate avanti lì, ma non più necessariamente unico dominio degli esperti di tecnologia informatica, fortunatamente. Esistono ancora delle comunità che si definiscono tali e fanno dell’ottimo lavoro. Quel movimento che si è sviluppato tra gli anni 70 e gli anni 90 ha avuto il proprio successo nell’imporre alla coscienza della cultura digitale temi che erano inizialmente solo al centro di queste piccole comunità e che, grazie anche allo sviluppo del web, sono diventati giocoforza centrali per le nostre vite quotidiane”.

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