Immagine in evidenza: Peter Liversidge – Everything is Connected – 2013 – Yorkshire Sculpture Park
Qualche giorno fa, commentando l’esplosione dell’intelligenza artificiale generativa (in particolare l’arrivo di Sora, il modello text-to-video di OpenAI) e riportando alcune riflessioni di ricercatori e giornalisti che lavorano con internet e le fonti aperte su come affrontare l’ondata di testi, foto, video sintetici, avevo proposto di rovesciare il paradigma. Invece di preoccuparci solo e tanto di tracciare la filiera dell’AI, pensare semmai di tracciare quella delle informazioni autentiche / verificate / contestualizzate.
Costituire una filiera dell’informazione
“Bisogna investire nel verificare e contestualizzare tutto quello che viene immesso in circolo dai media o da chiunque voglia fare informazione”, scrivevo nella newsletter Guerre di Rete. “Ricostruire e mettere a disposizione tutta la filiera non solo dell’AI, ma dei contenuti autentici. Permettere a tutti di risalire la corrente del flusso informativo a ritroso. I lettori come salmoni, esatto. Ogni artefatto informativo per quanto minuscolo non dovrebbe essere una monade slegata dal resto, ma dovrebbe avere una serie di connessioni che permettano di capire da dove arriva, che percorso ha fatto, assieme a chi o cosa altro stava, come è mutato, come è stato tagliato o modificato”.
Siccome quelle poche righe hanno attratto un certo interesse, vorrei approfondire la riflessione per spiegare meglio che cosa intendo. Dunque immaginiamo di essere una testata che pubblica diversi contenuti informativi su varie piattaforme: articolo sul suo sito, post Facebook, Instagram, Twitter, ecc.
Poniamo che uno stesso tema o evento, come spesso accade, sia sviscerato in diversi formati: video reportage, foto gallery, articolo lungo, breve, che poi diventano a loro volta post con diversi formati per Facebook, Instagram ecc
Poniamo, ma solo per facilità di comprensione, che il tema sia la guerra in Pincopallistan. O le elezioni in Regionalistan. Quello che si vuole.
Oggi avremo un contenuto che riporterà una serie di fatti che il lettore deve prendere per buoni. Se il giornalista scrive che la linea del fronte è avanzata di tot, se riporta una dichiarazione fatta da un politico, se si mette una foto, il lettore dovrà prendere tutte queste cose al loro face value, come dicono gli inglesi, accettando quello che viene detto senza farsi domande.
Ogni contenuto informativo è re
Che cosa succederebbe invece se mettessimo un segnaposto, un cartello stradale, a ogni micro-contenuto informativo?
A volte la cosa è molto banale, basta mettere un link alla fonte. Altre volte questo non è possibile, o non è sufficiente, o il percorso è più accidentato, quindi bisogna ingegnarsi, oltre che aggiungere note di contesto. Attenzione però: non sto proponendo una facile soluzione tecnologica, sto parlando di metodo, approccio, che è anche quello su cui chi fa informazione ha più controllo. E comunque le possibili tecnologie seguono il metodo.
Esempio.
Se sono una testata e pubblico una dichiarazione di un politico, di una sua breve frase (la posso pubblicare sul sito o sui social, vale uguale) devo trovare il modo di linkarla a un repository del mio sito dove ci sarà: quando e dove è stata detta la frase; se è stata tagliata, leggermente modificata, da una frase più articolata, e quale era quella più lunga; la possibilità di consultare il resto del discorso, magari in forma testuale; il link al video o audio del discorso; se il video o audio del discorso è stato registrato direttamente dal giornalista della testata, da un’altra testata o da chi. Se è stato preso dai social invece, allora dove è stato caricato originariamente e da quale utente; quando; da quale profilo; un link diretto o archiviato se possibile; quali verifiche sono state fatte dalla testata; se esistono smentite di quel politico e suffragate da quali elementi.
Un centro sulla trasparenza delle fonti
In pratica, immagino una sezione dei media con un centro sulla trasparenza delle fonti, o se preferite un source transparency hub.
Dove si potrebbero mettere contenuti molto diversi, come quello sopra ma anche, a mero titolo di esempio, i profili dei fotoreporter a cui si attribuiscono specifiche foto. Sono loro stessi a garantire di avere scattato una certa foto, e magari possono aggiungere note a quelle stesse immagini.
Ma il punto è che, se si inserisce in circolo un’immagine o un contenuto di altro tipo, ci deve essere il modo per i lettori che lo vogliano di andare a ricavare facilmente molte più informazioni sull’origine e le sue circostanze. Che possano ripetere e ripercorrere autonomamente il percorso fatto.
Se ci sono contesti in cui non c’è chiarezza sui fatti, o la situazione è confusa, chi fa informazione dovrebbe spiegare la metodologia con cui si è arrivati a una certa conclusione, e sottolineare quello che non si sa. E ovviamente rettificare in modo trasparente.
Il metodo di lavoro non è più un segreto industriale o professionale, chiamiamolo così, ma parte del processo informativo, anzi parte dell’informazione. (Che il metodo giornalistico di lavoro sia ciò che caratterizza il giornalismo è qualcosa che Mario Tedeschini-Lalli dice da tempo).
Vale sempre la protezione delle fonti che devono avere l’anonimato, ma il lettore dovrebbe essere sempre informato di elementi di contesto per capire la natura di queste fonti e ovviamente avere altri elementi per valutarle, ma questo credo che già oggi dovrebbe essere prassi.
Trasparenza come fattore educativo e formativo
La trasparenza non è la panacea di tutti i mali, e secondo un articolo pubblicato ad agosto dal Reuters Institute non ci sarebbe una relazione diretta fra aumento della trasparenza e aumento della fiducia. Ma anche senza mitizzare la trasparenza, il fatto di adottarla come metodologia aiuterebbe tutti a fare un’informazione migliore (perché gli stessi operatori del settore costruirebbero su basi più solide, messe anche da altri). Inoltre costituirebbe un fattore educativo, uno strumento di alfabetizzazione mediatica, di media literacy, perché i lettori fin da giovani sarebbero abituati ad avere a disposizione (e ad andarsi a vedere) una serie di elementi e di informazioni di contorno e di tracciamento.
Non è che si stia inventando nulla, ci sono già oggi media, singoli giornalisti e ricercatori che adottano queste metodologie. Pensiamo a Forensic Architecture o Bellingcat. Questi ultimi nelle loro norme editoriali scrivono: “Cercheremo sempre di essere aperti (chiari, trasparenti, ndr) sui metodi e gli strumenti che utilizziamo e sulle fonti delle nostre informazioni. Dato il nostro impegno per la trasparenza, in genere evitiamo l’uso di fonti anonime. Tuttavia, ci possono essere occasioni isolate in cui ciò è accettabile (…) Tutte le informazioni provenienti da fonti anonime saranno rigorosamente verificate attraverso prove di fonti aperte e altri dati”.
Dalle pratiche open source e investigative alla trasparenza su tutte le informazioni
Questa modalità, che si è rafforzata negli ultimi anni con la diffusione delle pratiche open source, è anche un’apertura a forme di collaborazione, se non di citazione, e quindi “interrompe la tradizionale esclusività giornalistica, promuovendo un insieme di competenze e una metodologia che possono essere utilizzate dal grande pubblico”, scriveva nel 2022 il Nieman Reports, pubblicazione pluripremiata sugli standard del giornalismo.
In questo contesto, come hanno scritto nel 2021 Nina Müller e Jenny Wiik, ricercatrici dell’Università di Göteborg, i giornalisti non sono più “gatekeepers” (custodi dell’informazione) ma “gate-openers” (coloro che abilitano e favoriscono l’accesso alle informazioni).
Ma questa riflessione finora è stata soprattutto relegata ad alcune buone pratiche e circoli di una parte del giornalismo investigativo. Ora invece si tratterebbe di estendere quelle modalità a ogni elemento informativo, dando pari dignità giornalistica a tutti i contenuti, nella consapevolezza che oggi ogni artefatto informativo, per quanto apparentemente insignificante, può improvvisamente acquistare un ruolo diverso, può essere armato o può depotenziare altri artefatti informativi.
Dunque, tornando alla proposta iniziale, l’idea è di strutturare e integrare l’idea di trasparenza, di apertura, di tracciabilità e di applicazione del metodo giornalistico in tutti i processi dei media, e di chi in generale fa informazione. In tutti i prodotti e formati informativi, dall’inchiesta transnazionale su crimini di guerra al post sui social con la notizia su un cantante.
Era da fare almeno venti anni fa. Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa potrebbe essere la volta buona per metterci la testa.
Approfondimenti:
Guerre di Rete a settembre ha pubblicato un ebook multiautore sull’intelligenza artificiale generativa e il suo impatto sulla politica e società. Si intitola Generazione AI e lo si può scaricare gratuitamente da qua.