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La bolla dell’intelligenza artificiale sta per scoppiare

Logo di OpenAI in una bolla - generata con AI

Immagine in evidenza generata con OpenAI

“Siamo entrati in una fase in cui gli investitori, nel complesso, sono eccessivamente entusiasti nei confronti dell’intelligenza artificiale? Secondo me, assolutamente sì”, ha affermato il fondatore di OpenAI Sam Altman. Parole non dissimili sono arrivate da Mark Zuckerberg, secondo il quale “è certamente una possibilità” che si stia formando una grande bolla speculativa. Da ultimo, anche Jeff Bezos ha rilasciato dichiarazioni simili.

Quando le stesse persone che, tramite le loro risorse, stanno favorendo lo sviluppo e la diffusione di una tecnologia si preoccupano della situazione finanziaria, significa che il rischio, come minimo, è concreto – anche perché le loro aziende risentirebbero più di ogni altra dei rovesci causati dallo scoppio di una bolla.

D’altra parte, basta osservare i numeri: per il momento le immense quantità di denaro che sono state investite per l’addestramento e la gestione dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM – Large Language Model) non stanno producendo risultati economici degni di nota. Peggio ancora: non è per niente chiaro quale possa essere un modello di business sostenibile per ChatGPT e i suoi compagni, e ci sono anche parecchi segnali che indicano come tutto l’hype (non solo finanziario) nei confronti dell’intelligenza artificiale potrebbe rivelarsi una colossale delusione (come indicano le ricerche secondo cui le aziende che hanno integrato l’intelligenza artificiale non hanno visto praticamente alcun effetto positivo). 

Se le cose andassero così, all’orizzonte non ci sarebbe solo lo scoppio di una gigantesca bolla speculativa, ma la fine – o almeno il drastico ridimensionamento – di una grande promessa tecnologica, che fino a questo momento non sembra essere sul punto di lanciare una “nuova rivoluzione industriale”.

I conti di OpenAI

Per iniziare gradualmente ad affrontare i problemi economici dell’intelligenza artificiale, gli immensi investimenti nel suo sviluppo (che rischiano di non essere ripagati) e la possibilità che le enormi aspettative riposte nei suoi confronti vengano disattese, la cosa più semplice è probabilmente guardare ai risultati e ai conti della più nota startup del settore: OpenAI.

Partiamo dalle buone notizie: OpenAI ha da poco annunciato che nel 2025 dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di dollari di ricavi e ha superato i 500 milioni di utenti di ChatGPT. Numeri che farebbero pensare a un futuro roseo se non fosse che, contestualmente, la società di Sam Altman continua a bruciare i soldi degli investitori a grandissima velocità: secondo le ultime stime, nel corso del 2025 OpenAI dovrebbe ammassare perdite pari a 27 miliardi di dollari (significa che incassa 10 miliardi ma ne spende 37). 

Brutte notizie arrivano anche dal fronte “utenti paganti”, che sono solo 15,5 milioni: un numero molto basso, che suggerisce come pochi vedano in ChatGPT uno strumento così utile da giustificarne il costo.

Le società che invece pagano OpenAI per fornire servizi terzi (“AI as a service”, come può essere il caso di Cursor, che si appoggia a OpenAI e Anthropic per offrire il suo assistente alla programmazione) stanno ottenendo risultati inferiori alle attese e molte di esse – come evidenziato in una recente newsletter dell’analista Ed Zitron – vivono una situazione economica traballante.

OpenAI inevitabilmente sfoggia sicurezza, promettendo di raggiungere un fatturato pari a 125 miliardi di dollari entro il 2029. L’obiettivo, quindi, è decuplicare il fatturato nel giro di quattro anni: qualcosa che potrebbe succedere, ma che al momento non è chiaro come potrebbe avvenire, soprattutto se si considera che – dopo tre anni di incessante martellamento – ChatGPT ha pochissimi utenti paganti (che costano all’azienda più di quanto le permettano di guadagnare) e che le startup che pagano OpenAI per usare GPT-5 hanno a loro volta ricavi trascurabili.

Investimenti triliardari

Per il momento, far quadrare i conti è l’ultima delle preoccupazioni di Sam Altman, che prevede di accumulare perdite pari a 115 miliardi da qui al 2029 e ha recentemente dichiarato di voler spendere nel corso del tempo “migliaia di miliardi” per costruire l’immenso network di data center necessario ad alimentare i large language model e gli altri sistemi di intelligenza artificiale generativa.

Ma c’è un problema: OpenAI questi soldi non li ha e deve anzi continuamente rivolgersi ai suoi finanziatori soltanto per mantenere in funzione le attuali operazioni. Alla fine di giugno, OpenAI aveva in cassaforte circa 17 miliardi, che al suo ritmo di spesa sono sufficienti solo per qualche mese. E infatti ad agosto c’è stato un altro – l’ultimo, fino a questo momento – round di finanziamenti, che ha permesso a Sam Altman di intascare altri 40 miliardi, per una valutazione di 300 miliardi di dollari. Valutazione che, in seguito ad altre operazioni finanziarie, è arrivata fino a 500 miliardi, la più alta mai registrata da una società non quotata in borsa.

Se OpenAI ha continuamente bisogno di raccogliere denaro soltanto per far funzionare (in perdita) ChatGPT, come può spendere centinaia di miliardi di dollari in infrastrutture? La risposta è: non può. Per questa ragione, lo scorso settembre ha firmato un contratto da 300 miliardi di dollari, da versare in cinque anni, a Oracle: la società fondata e guidata da Larry Ellison, le cui azioni sono schizzate alle stelle in seguito a questo annuncio.

In sintesi: OpenAI ha promesso a Oracle di pagare, con soldi che al momento non ha, la costruzione degli immensi data center necessari a soddisfare la sua infinita fame di GPU ed elettricità. E Oracle, invece, ce li ha i soldi? Anche in questo caso la risposta è (in parte) negativa: come spiega il Wall Street Journal, “Oracle è già fortemente indebitata: alla fine di agosto la società aveva un debito a lungo termine di circa 82 miliardi di dollari e un rapporto debito/capitale proprio di circa il 450%. Per fare un confronto, il rapporto del gruppo Google-Alphabet era dell’11,5% nell’ultimo trimestre, mentre quello di Microsoft era intorno al 33%”.

Le azioni di Oracle saranno anche salite tantissimo in seguito alla notizia della partnership con OpenAI, ma le società di rating iniziano a sentire puzza di bruciato (o almeno di rischi fortissimi), tant’è che Moody’s ha dato una valutazione negativa del rating di Oracle pochi giorni dopo la firma del contratto.

Riassumendo: Oracle, già fortemente indebitata, dovrà indebitarsi molto di più per poter costruire un’infrastruttura di data center, che le dovrebbe essere un domani pagata da OpenAI, sempre che quest’ultima riesca, entro la fine del decennio, ad aumentare il fatturato fino ai livelli promessi, che sono dieci volte superiori a quelli odierni.

Tutto potrebbe andare come auspicato, ma al momento i conti non tornano. E se non tornano per OpenAI, la startup simbolo dell’intelligenza artificiale, figuriamoci le altre: sempre secondo le stime di Ed Zitron, Anthropic nel 2025 spenderà 7 miliardi di dollari e ricaverà al massimo 4 miliardi (bilancio in rosso di tre miliardi), mentre Perplexity punta a generare ricavi per 150 milioni di dollari nel 2025, ma spende anche lei molto più di quello che intasca (nel 2024 ha speso il 67% in più di quello che ha guadagnato).

I numeri non migliorano se si osservano i conti relativi all’intelligenza artificiale dei principali colossi della Silicon Valley: Microsoft quest’anno investirà 80 miliardi in infrastrutture e ricaverà 13 miliardi. Amazon spenderà 105 miliardi e ne ricaverà 5. Google spenderà 75 miliardi e ne ricaverà al massimo 8. Meta spenderà 72 miliardi e ne ricaverà al massimo 3.

Nel complesso, queste quattro società investiranno in un solo anno 332 miliardi di dollari e ne ricaveranno 29 (al massimo). Stime confermate dall’Economist, che scrive:  “Secondo le nostre analisi, i ricavi complessivi delle principali aziende occidentali derivanti dall’intelligenza artificiale ammontano oggi a 50 miliardi di dollari l’anno. Anche se tali ricavi stanno crescendo rapidamente, rappresentano ancora una frazione minima dei 2.900 miliardi di dollari di investimenti complessivi in nuovi data center previsti a livello globale da Morgan Stanley tra il 2025 e il 2028”.

La bolla di Nvidia

In questo fosco scenario, c’è una sola azienda per la quale l’intelligenza artificiale si sta rivelando un affare d’oro: Nvidia. La società che progetta le più avanzate GPU – i processori indispensabili per l’addestramento e l’utilizzo dei sistemi di AI – ha dichiarato guadagni (non ricavi: guadagni) per 26 miliardi di dollari solo nell’ultimo trimestre. Nel complesso, si stima che Nvidia nel 2027 avrà “free cash flow” (flusso di cassa libero, ovvero i soldi rimasti in pancia all’azienda dopo aver coperto tutte le spese operative e gli investimenti) pari a 148 miliardi di dollari.

Mentre tutti spendono (e perdono) nell’intelligenza artificiale, Nvidia fa un sacco di soldi. Non sorprende, visto che una gran parte delle spese di OpenAI, Microsoft e compagnia sono necessarie proprio ad acquistare le GPU di Nvidia. Ma c’è un problema: a differenza di Meta o Google (che continuano a guadagnare centinaia di miliardi da social network e motori di ricerca), gli enormi guadagni di Nvidia sono inestricabilmente legati al boom dell’intelligenza artificiale.

Se le aziende che acquistano in massa le GPU di Nvidia decidessero che non è più il caso di spendere le cifre folli che stanno al momento spendendo, quanto precipiterebbe il valore di un’azienda che ha ottenuto il 40% dei suoi ricavi da due soli misteriosi clienti, che secondo TechCrunch potrebbero essere Microsoft e Google? Se l’intelligenza artificiale non mantenesse le promesse, in che scenario si troverebbe un’azienda che detiene il 90% della quota di mercato delle GPU, la cui vendita è sostenuta dal boom dell’intelligenza artificiale?

È proprio per queste ragioni che Nvidia vuole evitare a tutti costi che qualcosa del genere si verifichi. Negli stessi giorni in cui Sam Altman e Larry Ellison stringevano il ricchissimo accordo di cui abbiamo parlato, Nvidia si impegnava a investire “fino a 100 miliardi di dollari” in OpenAI “nei prossimi anni”. In poche parole, Nvidia vuole prestare a OpenAI un terzo dei soldi che OpenAI deve dare a Oracle affinché compri le GPU di Nvidia che alimenteranno i suoi data center.

OpenAI non è però l’unica azienda a beneficiare di questo schema: Perplexity, CoreWeave, Cohere, Together AI, Applied Digitals e molte altre startup che si occupano di vari aspetti dell’intelligenza artificiale (dall’infrastruttura allo sviluppo di chatbot) hanno potuto godere della generosità del CEO di Nvidia Jensen Huang, che continua a investire denaro in società che utilizzeranno questi soldi anche o soprattutto per acquistare GPU.

Da una parte, ha senso che Nvidia utilizzi i faraonici guadagni per sostenere i suoi principali clienti. È un meccanismo che è stato paragonato da The Information ai programmi di stimolo delle banche centrali: si immette denaro nell’economia nella speranza che questo generi crescita economica e, indirettamente, produca i ritorni necessari a compensare l’investimento iniziale.

Dall’altra, i soldi che Nvidia immette nel settore potrebbero artificialmente sostenere la domanda delle sue GPU, facendo apparire i suoi risultati più robusti di quanto altrimenti sarebbero, gonfiando quindi il valore delle azioni.

Inoltre, il fatto che Nvidia sia al centro di un modello finanziario circolare (perché presta i soldi a chi deve comprare ciò che produce) non può che alimentare i sospetti che quella che si sta venendo a creare sia una colossale bolla finanziaria, che rischia di scoppiare alla prima trimestrale di Nvidia inferiore alle aspettative, trascinando con sé tutte le realtà più esposte e causando un crollo che – secondo alcune stime – potrebbe essere quattro volte superiore alla bolla immobiliare che nel 2008 ha mandato il mondo intero in recessione.

Negli ultimi tre anni, il valore delle aziende tecnologiche quotate al Nasdaq è raddoppiato proprio sulla scia dell’entusiasmo generato da ChatGPT. Nel complesso, le prime sette aziende per valore di mercato (Nvidia, Apple, Amazon, Meta, Tesla, Microsoft e Alphabet/Google) oggi rappresentano il 34% del valore complessivo dell’indice S&P 500 e sono tutte, con la parziale eccezione di Apple, enormemente esposte sul fronte dell’intelligenza artificiale.

Le azioni in borsa stanno salendo alle stelle, mentre i risultati economici reali sono trascurabili. Migliaia di miliardi di dollari stanno venendo investiti in una tecnologia che, per il momento, non sta mantenendo le colossali aspettative in essa riposte e che genera ricavi poco significativi, costringendo i principali colossi del settore a indebitarsi o a bruciare risorse nella speranza che questa “rivoluzione artificiale” infine si materializzi.

Che la bolla dell’intelligenza artificiale esista è un dato di fatto: la vera incognita riguarda la violenza con cui esploderà. Molto dipenderà da quanto, nel frattempo, la tecnologia sarà riuscita a mantenere almeno in parte le sue promesse. Se i guadagni annunciati inizieranno davvero a concretizzarsi, la correzione potrebbe essere contenuta. Se invece la Silicon Valley continuerà a investire enormi quantità di denaro senza ottenere nulla in ritorno, l’esplosione potrebbe essere devastante.