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Perché stanno tutti parlando di Ethereum e di Vitalik Buterin

Immagine in evidenza: Tech Crunch

La faccia di Vitalik Buterin, fino ad oggi sconosciuta al grande pubblico, è finita qualche giorno fa sulle homepage dei quotidiani italiani. Non per un improvviso interesse dei media verso il mondo delle criptovalute, ma perché alcuni scammer avevano usato la sua immagine per rimpiazzare quella originaria dell’account Twitter del Ministero della Transizione Ecologica, cercando di sfruttare l’attenzione internazionale per un importante cambiamento nella piattaforma Ethereum al fine di truffare utenti distratti con la promessa di facili guadagni. Non è certo la prima volta che dei truffatori cercano di impersonare sui social media Buterin (che di Ethereum è il fondatore) fingendo di regalare criptomonete con l’obiettivo di fregare soldi a chi abbocca, tanto che lui stesso ha dovuto più volte mettere in guardia i suoi follower, ma questa volta il contesto è diverso. Perché nel mondo blockchain c’è effettivamente attesa e trepidazione per una trasformazione nota come The Merge. Ma prima occorre spiegare chi è Buterin, e come funziona Ethereum.

Buterin e la scoperta di Bitcoin

Sono i primi mesi del 2011 quando Dmitry Buterin, scienziato informatico russo trasferitosi a Toronto nel 1999, racconta al figlio Vitalik dei neonati bitcoin, che aveva a sua volta scoperto da poco. All’epoca, Vitalik ha soltanto 17 anni e – nonostante la passione per l’informatica e la matematica (e per il videogioco World of Warcraft) – non è ancora entrato in contatto con la prima criptovaluta, presentata nel 2008 in un paper dal misterioso Satoshi Nakamoto contestualmente alla tecnologia della blockchain: il registro distribuito e decentralizzato che permette di coniare (in gergo “minare”) un numero predeterminato di monete digitali senza doversi affidare a nessuna istituzione centralizzata, ma sfruttando soltanto dei meccanismi informatici.

In poco tempo, Vitalik Buterin si appassiona ai bitcoin e alle potenzialità che intravede dietro questa innovazione digitale e finanziaria. E così, ancora minorenne, inizia a scrivere per un piccolo sito specializzato articoli sul tema pagati 5 bitcoin l’uno (all’epoca un bitcoin valeva tra i 5 e 10 dollari, oggi siamo oltre i 20mila). La passione di Buterin verso questo mondo continua a crescere, al punto che nel maggio 2012 unisce le forze con Mihai Alisie, programmatore rumeno di 23 anni, e fonda Bitcoin Magazine: una delle prime vere riviste (online e cartacea) esclusivamente dedicate al mondo delle criptovalute.

Nel frattempo, il valore dei bitcoin continua a salire: nell’aprile 2013 supera i 100 dollari, all’inizio del 2014 raggiunge la quota storica di mille dollari. Sempre più assorbito da questo mondo – e sempre più dotato di risorse, grazie alle criptomonete accumulate scrivendo articoli e a una borsa di studio da 100mila dollari assegnatagli dalla Thiel Foundation – Buterin decide di lasciare la facoltà di Scienze Informatiche all’università e di iniziare a girare il mondo per incontrare altri appassionati di blockchain, entrando in contatto con i più svariati progetti.

La creazione di Ethereum e il concetto di smart contract

È in questo periodo che intuisce che i bitcoin, per assurdo, limitano le potenzialità della blockchain, che potrebbe andare molto oltre la semplice creazione di criptomonete (nel frattempo replicata da altre realtà come Litecoin o Monero). A soli vent’anni, Buterin capisce infatti come questo strumento possa dare vita a una vera e propria piattaforma, in grado di ospitare qualunque progetto voglia sfruttare a suo vantaggio la tecnologia del registro distribuito.

E così, nel settembre 2014, viene presentato il white paper di Ethereum: una piattaforma basata su blockchain che sfrutta la criptovaluta ether e sulla quale vengono per la prima volta implementati i cosiddetti smart contracts, contratti automatizzati che entrano in esecuzione non appena le condizioni sottoscritte tra le parti sono soddisfatte. L’obiettivo è ambizioso: portare il concetto di decentralizzazione molto oltre le monete digitali e contribuire a creare un mondo privo di intermediari, di istituzioni centrali, di mediatori e altro. Tutte le transazioni – economiche e non solo, come vedremo tra poco – possono essere effettuate direttamente tra gli utenti ed essere automaticamente abilitate dalla blockchain. Per fare solo un esempio, grazie a questa tecnologia è possibile creare uno smart contract che faccia scattare automaticamente il pagamento alla consegna del lavoro concordato.

Nascono così i primi progetti che provano a sfruttare le potenzialità della blockchain e degli smart contract, spesso con obiettivi etici e di matrice progressista: da Follow My Vote, che studia come permettere a tutti di votare in maniera sicura tramite computer o smartphone, a LO3 Energy, che immagina un futuro in cui chiunque abbia pannelli solari sul tetto possa vendere energia ai vicini di casa attraverso aste automatiche basate su blockchain.

Dalle ICO al web3: l’ascesa di Ethereum

A distanza di qualche anno, possiamo dire che ben pochi dei progetti “etici” basati su blockchain – che si pensava potessero dare vita a un cooperativismo delle piattaforme in grado di contrastare il modello di Uber, Glovo e dintorni – sono riusciti a diffondersi. Nonostante ciò, nel tempo Ethereum ha partorito parecchie applicazioni di successo, anche se di natura profondamente diversa.

La prima vera realtà a raggiungere grande diffusione nasce nel 2017 con il gioco dei CryptoKitties, che permette di acquistare, allevare, personalizzare e rivendere dei gatti digitali che diventano rapidamente ambiti oggetti da collezione. La popolarità è tale che alcuni di questi cuccioli vengono scambiati per centinaia di migliaia di dollari, mentre il numero di transazioni è talmente elevato da saturare la capacità di questa blockchain.

È la prima occasione in cui si sente parlare degli NFT, i non-fungible token (certificati digitali basati su blockchain che attestano la proprietà di un oggetto digitale) che tra il 2021 e il 2022 sono stati al centro di un fenomeno culturale e speculativo abilitato soprattutto da Ethereum (si calcola che nel 2021 il mercato globale degli NFT abbia raggiunto 11 miliardi di dollari).

Non è stata certo l’unica applicazione di Ethereum di successo. Nel corso del primo grande boom delle criptovalute (2017-18), per esempio, il valore degli ether passò in 12 mesi da 10 dollari a 1.300 dollari: una crescita impressionante resa possibile soprattutto dal successo delle ICO (initial coin offering), una specie di quotazione in borsa ma realizzata su blockchain, tramite la quale parecchie realtà nate su Ethereum si sono finanziate emettendo dei token (criptovalute legate a uno specifico progetto) che permettevano di investire su queste realtà e anche di avere una voce in capitolo sulla loro governance.

Per quanto alcune di queste ICO fossero collegate a progetti seri e che nel frattempo si sono consolidati (per esempio Decentraland, l’esempio più noto di metaverso nel mondo blockchain), in molti altri casi questi strumenti sono stati la copertura per sfruttare l’entusiasmo del momento al fine di sottrarre soldi a ignari investitori, attirandoli in vere e proprie truffe basate su progetti che svanivano non appena raccolti i soldi.

Sia la bolla delle ICO del 2018 che quella degli NFT del 2021 erano destinate a scoppiare, facendo in entrambi i casi crollare il valore di Ethereum. Situazioni che si sono ripetute anche con il fenomeno della DeFi (la finanza decentralizzata basata su blockchain, tramite la quale è possibile erogare principalmente prestiti ad alto rischio e ad alto rendimento) e che minacciano in generale il più ampio mondo del web3, etichetta che racchiude tutti i progetti online basati su blockchain.

Che cos’hanno in comune queste sigle, oltre al fatto di essere spesso basate su Ethereum? Probabilmente che, nonostante le promesse utopistiche, si sono rivelate dei fenomeni speculativi spesso privi di funzioni concrete e di solide basi economiche, dimostrandosi in alcuni casi delle vere e proprie catene di Sant’Antonio (sui critici di alcuni di questi progetti vedi anche il nostro articolo Perché il Web3 ci fa litigare).

L’influenza di Buterin

Una realtà dei fatti nettamente in contrasto con quanto professato da Vitalik Buterin, da sempre molto critico verso gli aspetti più speculativi di questa tecnologia. L’enorme influenza di Buterin sulla comunità di Ethereum fa sì che, per esempio, sul canale ufficiale di Reddit dedicato a Ethereum sia vietato parlare di quotazioni o investimenti e che, in generale, questa piattaforma continui a essere considerata la più promettente da parte di chi ancora scommette sui risvolti etici e progressisti della blockchain.

Da un certo punto di vista, quindi, la grande influenza di Buterin è probabilmente ciò che ha permesso alla comunità di Ethereum di distinguersi nettamente sia dagli “anarcocapitalisti” che dominano il settore dei bitcoin (concentrati solo sugli elementi di trasformazione finanziaria), sia dai progetti più “aziendalisti” – ovvero disposti a scendere a compromessi con le istituzioni e con le grandi aziende – come Ripple o Cardano.

In un mondo che fa della decentralizzazione il suo ethos, la grandissima influenza di Buterin sulla comunità che gestisce e sviluppa Ethereum rappresenta però un paradosso (assente invece in Bitcoin, visto che il misterioso Satoshi Nakamoto è scomparso nel nulla). Un problema che è apparso in tutta la sua rilevanza il 17 giugno 2016, uno dei giorni più difficili della carriera professionale di Vitalik Buterin.

L’hack di The DAO

Quel giorno era stato infatti hackerato uno dei primi e più ambiziosi progetti costruiti da terzi sfruttando Ethereum: il fondo d’investimenti completamente automatizzato noto soltanto come The DAO (decentralized autonomous organization, che è anche il termine generale con cui si indica ogni società autogestita tramite blockchain). Questo fondo aveva raccolto qualcosa come 160 milioni di dollari da 11mila sostenitori, e rappresentava la prova fino a quel momento più evidente delle potenzialità degli smart contracts. Un hacker era però riuscito a intrufolarsi nel sistema e a sottrarre 50 milioni di dollari dal fondo.

Quanto avvenuto non solo dimostrava come la tecnologia del “registro distribuito”, anonimo e crittografato non fosse affidabile al 100%, ma poneva Buterin di fronte a un vero e proprio dilemma: restare fedele ai principi della blockchain oppure tradirli per sistemare il guaio che si era trovato a fronteggiare? Il valore fondamentale del registro distribuito è infatti proprio quello di aggirare la gestione dei processi da parte di un ente centrale: tutto è automatizzato e il codice è sovrano.

Ma se il codice è sovrano, non è legittimo che un hacker sfrutti un bug presente al suo interno? In fondo, questo hacker non aveva manomesso nulla: aveva però scoperto – semplificando molto – che poteva richiedere indietro i soldi da lui investiti nella DAO a ciclo continuo, continuando a riceverli senza sosta, ancora e ancora. Un po’ come se potessimo prelevare da un bancomat senza veder mai scendere il nostro conto in banca.

Nella blockchain, un bug si può considerare una sorta di vuoto legislativo. Ma lasciare che l’hacker si tenesse i soldi sottratti (che poteva convertire in denaro reale una volta trascorsi 30 giorni) significava far perdere denaro agli investitori “onesti”. E così, Buterin decide di optare per il pragmatismo, cancellando le transazioni avvenute dopo l’intervento dell’hacker e trasferendo tutto il carico di lavoro di Ethereum su una nuova blockchain (in gergo, hard fork), restituendo agli investitori i loro ether.

L’85% dei nodi (che gestiscono i computer collegati alla blockchain, senza l’approvazione dei quali era materialmente impossibile eseguire questa operazione) ha accettato la scelta di Buterin; un 15% di duri e puri ha invece rifiutato la decisione imposta dall’alto e ha continuato a lavorare sulla vecchia blockchain, ormai ribattezzata Ethereum Classic (ragion per cui il nostro hacker ha comunque potuto tenersi circa 100mila dollari in ether).

Verso The Merge, la trasformazione di Ethereum

Quanto avvenuto ha dimostrato soprattutto una cosa: per quanto automatizzata e decentralizzata, la blockchain di Ethereum è fortemente influenzata dalle decisioni di una singola persona, nei confronti della quale è quindi necessario riporre proprio quella fiducia che la blockchain dovrebbe eliminare. È qualcosa di cui lo stesso Buterin è consapevole: come dimostra il fatto che abbia dichiarato più e più volte di voler ridurre la sua influenza sulla comunità. Nonostante tutto ciò, proprio in questi giorni Buterin sta supervisionando da vicino un momento cruciale della vita di Ethereum: una fase di transizione attesissima nel mondo della blockchain e nota come The Merge (“la fusione”).

Si tratta di un completo cambiamento dei meccanismi che regolano il funzionamento e la sicurezza di questa piattaforma e che promette di moltiplicare finalmente le applicazioni della blockchain e degli smart contracts, rendendone l’utilizzo più sostenibile ed efficiente e, in definitiva, realizzando le tanto attese potenzialità di questa tecnologia. Di che si tratta? Per capire perché The Merge è così importante e attesa, bisogna partire dai problemi che affliggono oggi Ethereum (e molte altre piattaforme blockchain, tra cui quella dei bitcoin): inquinamento e lentezza.

In sintesi estrema, per convalidare le transazioni e ottenere in cambio una certa quota di ether, i computer collegati alla blockchain (che sono ormai degli enormi macchinari gestiti a livello professionale da vere e proprie aziende) gareggiano l’uno contro l’altro nel tentativo di risolvere per primi un complessissimo puzzle algoritmico. Dal momento che più il computer è potente e maggiori sono le possibilità di vincere questa gara, nel tempo il potere di calcolo dedicato a questo processo – solitamente noto come “mining”, ma il cui nome tecnico è proof-of-work – è cresciuto enormemente. E con esso anche il consumo energetico necessario.

Gli eccessivi consumi sono un problema citato sempre quando si parla dei bitcoin, ma che in realtà riguarda anche altre blockchain, tra cui ovviamente Ethereum. Il consumo energetico di Ethereum supera comunque i 74 terawattora, circa quanto l’Austria (con i bitcoin siamo attorno ai 130 TWh). Il meccanismo della proof-of-work limita inoltre grandemente la quantità di transazioni gestibili al secondo, che nel caso di Ethereum si aggirano attorno alla ventina: provocando impennate nei costi sostenuti dagli utenti ogni volta che la blockchain è particolarmente trafficata. In alcuni casi, una singola transazione può costare anche 50 dollari e più, limitando inevitabilmente la diffusione di questo strumento.

Dalla proof-of-work alla proof-of-stake

Buterin si è dimostrato conscio di questi limiti fin dall’inizio, tanto da teorizzare la necessità di dare vita a questa trasformazione fin dagli esordi di Ethereum. Sette anni più tardi e dopo tantissimi rinvii, nel settembre 2022 Ethereum ha finalmente completato il processo noto appunto come The Merge (“la fusione”), annunciato ufficialmente nell’agosto di quest’anno.

Questa cruciale transizione si basa principalmente sul sistema della proof-of-stake, un meccanismo in cui i miner – e la loro energivora sfida a colpi di potenza computazionale – sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono più risolvere puzzle algoritmici, ma semplicemente depositare una somma di denaro (stake) come cauzione (si parte da un minimo di 32 ether, in questo momento circa 50mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori che confermano la validità della transazione che sta avvenendo sulla blockchain, ottenendo come ricompensa un interesse sugli ether depositati. Chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati.

In questo modo, non appena The Merge prenderà il via, le emissioni di Ethereum saranno immediatamente ridotte del 99%, mentre ulteriori aggiornamenti dovrebbero rendere questa blockchain capace di completare anche 100mila transazioni al secondo (una quantità paragonabile a un network come Visa). Molte altre blockchain già usano la proof-of-stake, tra cui Cardano, Avalanche e Polkadot. Quando però avverrà “la fusione”, Ethereum sarà di gran lunga il più grande network basato su blockchain ad adottare questo sistema. Se tutto andrà per il verso giusto, The Merge potrebbe davvero rivelarsi la tanto attesa trasformazione della blockchain.

Il condizionale, però, è d’obbligo. Come ha segnalato un ingegnere di Ethereum, si tratta di un’operazione simile a “cambiare il motore di un aeroplano mentre è in volo”. I rischi sono enormi: qualche grave errore nel passaggio potrebbe mettere a rischio centinaia di progetti costruiti su Ethereum, che nel complesso gestisce qualcosa come 50 miliardi di dollari in fondi depositati dagli utenti. “Non la stiamo prendendo alla leggera”, ha spiegato al New York Times Danny Ryan, un ricercatore della Ethereum Foundation al lavoro su The Merge dal 2017. “C’è stata una quantità immensa di lavoro ingegneristico, di prove e di controllo a livello accademico”.

A caccia degli ultimi bug

Vista l’importanza cruciale del passaggio e i problemi che si sono verificati in passato (tra cui il già citato caso di The DAO), si sta facendo di tutto per evitare che qualcosa possa andare storto. Come spiega la testata specializzata Decrypt, Ethereum ha quadruplicato i premi in palio per chiunque scovi dei bug nel codice, offrendo un milione di dollari per chiunque individui un “bug critico”, 200mila dollari per quelli “ad alto rischio” e 40mila dollari se sono a “rischio medio”.

Se anche dovesse filare tutto liscio, The Merge rischia di rivelarsi comunque controverso. Come sottolineato soprattutto dalla comunità di seguaci dei bitcoin (che si oppone ferocemente alla proof-of-stake), questo sistema finirà inevitabilmente per aumentare la concentrazione del potere all’interno della blockchain, offrendo maggiori chance di validare le transazioni (e quindi di guadagnare) a chi ha già più risorse da investire. In poche parole, la proof-of-stake, per com’è strutturata, arricchisce i già ricchi e provoca inevitabilmente un ulteriore accentramento della ricchezza.

Per arginare questo problema, su Ethereum e su altre blockchain che usano la proof-of-stake viene offerta la possibilità di partecipare alle cosiddette “staking pool”. Come spiega proprio il sito di Ethereum, si tratta di “un approccio collaborativo per consentire a chi ha quantità minori di ether di ottenere i 32 ether necessari”. In poche parole, si uniscono le forze e poi si dividono gli eventuali proventi, impedendo così che soltanto chi possiede, come minimo, decine di migliaia di euro in ether possa partecipare.

Sarà sufficiente a evitare che Ethereum prenda la strada della centralizzazione? E davvero questo passaggio così ostico filerà liscio? Ci vorrà del tempo prima di poter fare dei bilanci, anche se i primi segnali immediatamente successivi al passaggio, che si è verificato il 15 settembre, sembrano essere positivi. Nonostante i rischi e le controversie, The Merge rappresenta senza dubbio il momento più importante dalla nascita di Ethereum: la piattaforma che – nonostante la crescente concorrenza – ha le maggiori chance di portare la blockchain in una nuova fase, mostrando finalmente le tanto attese potenzialità trasformative.